Concerti • A vent’anni dall’inaugurazione della sala torinese, apre la stagione del Lingotto di Torino una travolgente Nona con l’ottima performance della Staatskapelle di Dresda
di Attilio Piovano
SEMBRA IERI, E INVECE SONO TRASCORSI ormai quasi vent’anni da quell’indimenticabile serata: era il 6 maggio del 1994 e Claudio Abbado, alla guida dei mitici Berliner, dirigeva a Torino la Nona Sinfonia di Mahler per l’inaugurazione dell’Auditorium del Lingotto progettato da Renzo Piano negli spazi della Sala Presse, dove per decenni si erano costruiti fortunati modelli della Fiat, dalla mitica Topolino sino alle auto degli anni Settanta. Non a caso, dunque, la stagione 2013/2014 di Lingotto Musica che segna l’ingresso nel suo ventesimo anno di attività, ancora una volta per la direzione artistica di Francesca Camerana, si è inaugurata ieri, 21 ottobre 2013, esattamente con lo stesso programma: e si è trattato di una memorabile Nona affidata alle cure di Myung-Whun Chung alla guida della blasonata Staatskapelle di Dresda, la più antica istituzione sinfonica del mondo, essendo stata costituita addirittura nel 1548 dal Principe Elettore di Sassonia. Potendo contare su una compagine di eccezionale livello, dal suono di straordinaria bellezza, a dir poco perfetta in tutte le sue ottime sezioni, con un amalgama che trova eguali in pochissime altre compagini al mondo, Chung – dirigendo a memoria – ha dato una lettura coinvolgente dell’ultimo capolavoro che Mahler, poco più che cinquantenne, non fece in tempo ad ascoltare quando Bruno Walter la diresse per la prima volta a Vienna il 26 giugno 1912.
Emozioni già dai primi istanti del vasto Andante d’esordio con quell’attacco stranito; poi le zone livide e quelle struggenti, i momenti di ristagno e il divampare violento di istanti infuocati, i clangori e gli schianti così idiomatici in Mahler. Chung, del successivo In tempo di Ländler un po’ goffo e moto rude (secondo l’indicazione dell’autore) ha saputo cogliere al meglio gli echi popolari, la sublime naiveté, ma anche un certo humour, il tono grottesco e gli scarti ritmici con una concertazione superba, attentissima ai minimi dettagli, timbrici, dinamici ed espressivi. Poi il più breve Rondò Burleske, vero virtuosistico tour de force per l’orchestra, con il suo incedere spedito da perfetto congegno, la carica energetica e le intersezioni polifoniche, giù giù sino alla coda eccitata e coloratissima. Da ultimo, il clou del toccante Adagio affrontato con nobile maestosità e quel senso di nostalgia come di sguardo retrospettivo, la pasta ambrata degli archi, gli empiti melodici caldi ed effusivi e la cura estrema dei dettagli. L’ultimo immane apice di un esacerbato fortissimo e infine l’estrema rarefazione delle battute finali: come un accorato Lebwohl, un addio all’autore del Lied von der Erde, lucido interprete della modernità della quale seppe intuire le contraddizioni, chiudendo la sua ultima, compiuta Sinfonia con un interrogativo, come un protendersi sull’abisso. E gli istanti indicibili di silenzio in cui Chung ha tenuto immobile la bacchetta parevano concentrare e racchiudere tutto questo. E molto di più.
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