Era un recital molto atteso: il più popolare dei cicli di Lieder schubertiani è stato eseguito con successo al Teatro alla Scala da Jonas Kaufmann e Helmut Deutsch
di Luca Chierici
CON UN ABBRACCIO FRATERNO E COMMOSSO tra i due protagonisti, gesto che aggiungeva ulteriori emozioni per un pubblico del tutto soggiogato da una serata davvero irripetibile, si chiudeva 36 anni fa alla Scala una memorabile Winterreise con Fischer-Dieskau e Sawallisch, tra le cose più belle che conserviamo nei nostri ricordi. L’abbraccio, l’altra sera, non c’è stato, sostituito da una cordiale stretta di mano tra Jonas Kaufmann e Helmut Deutsch, officianti un rito che si dovrebbe ripetere molto più spesso e che il teatro aveva ospitato cinque anni fa attraverso la presenza anch’essa eccezionale di Thomas Quasthoff e Daniel Barenboim. Il percorso seguito dai due artisti nel dipanare i misteri del capolavoro schubertiano è di tale intensità spirituale da giustificare un gesto finale di affettuoso, reciproco ringraziamento. Ma al termine del concerto di canto di lunedì scorso, nonostante la temperatura e la durata degli applausi rivolti ai protagonisti, più che il risultato di un cammino iniziatico si coglieva la buona riuscita di un recital molto atteso e affrontato con i mezzi di una ricercata professionalità.
Prima la musica, dopo le parole, verrebbe da pensare considerando il valore dei versi pure ispirati di Wilhelm Müller se confrontati con l’immediatezza di un messaggio musicale vertiginoso come quello uscito dalla penna di Schubert tra febbraio e ottobre del 1827. La tonalità della morte che apre la raccolta – re minore, la stessa del famoso Quartetto di tre anni precedente – domina indiscussa quell’anno fatale che vede la scomparsa di Beethoven (il 26 marzo) e anche di Müller (il 30 settembre) e la morte è il vero filo conduttore di un ciclo di Lieder che non lascia spazio a commento alcuno. Winterreise è congegnato in modo tale che fin dall’apertura del primo Lied si possano intuire a sufficienza le doti interpretative e strumentali del pianista: nel nostro caso Helmut Deutsch ha scandito con troppa rigidità il pur meccanico incedere del protagonista del viaggio d’inverno, un percorso che ha stentato a prendere forma per una buona decina di minuti. Quelli che sono stati necessari anche per abituare l’orecchio al modo di porgere di Kaufmann, che ha giocato troppo sull’alternanza tra passaggi a voce piena e sussurrati. Questi ultimi, predominanti, diventano veri e propri falsetti nella regione acuta, rendono spesso incomprensibile la ricezione del testo, disturbano la naturalezza del fraseggio. Una tecnica e uno stile interpretativo che ci è parso fin troppo ricercato e che sconfina nel manierismo, celando in buona parte i fondamenti di un messaggio musicale più sincero. La lettura da parte dei due protagonisti è proseguita con più sicurezza e maggiore coinvolgimento, ma nei momenti tradizionalmente più noti del ciclo il ricordo di altre interpretazioni memorabili si affacciava prepotentemente all’attenzione. Ogni generazione ha la Winterreise che si merita, si potrebbe dire, e in questo momento i meccanismi che sovraintendono al mercato hanno imposto al pubblico un prodotto che sulla carta era fatto apposta per riscuotere grande successo, cosa che puntualmente è avvenuta. Nessuno ci toglie dalla testa che Winterreise trovi nella tessitura baritonale il proprio veicolo espressivo di elezione (anche se pare che la stesura originale fosse stata pensata per la voce di tenore). E se certo fascino timbrico del Kaufmann meno “controllato” si faceva comunque apprezzare, a volte ci è sembrato scorgere sul palcoscenico più un Manrico o un Don Carlo che un disperato e congelato wanderer.
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Ascoltati con estremo entusiasmo a Berlino!!!