
La Filarmonica Arturo Toscanini diretta da Kazushi Ono, in concerto al Paganini di Parma, presenta un programma con Dvořák, Čajkovskij e Berlioz. Nella Mort de Cléopâtre monta in cattedra Anna Caterina Antonacci
di Francesco Lora
NON SI PARLA ABBSTANZA della Filarmonica Arturo Toscanini, che pure è una tra le realtà italiane più felici in fatto di orchestre. Riempie di musica sinfonica le stagioni di Parma e Piacenza, scende volentieri nel golfo mistico dei teatri emiliani, ha nelle proprie energiche file un gran numero di signore (mentre il mestiere del musicista è ancor oggi troppo sbilanciato al maschile). Ha i propri punti di forza nell’entusiasmo e nell’esuberanza: agli occhi e agli orecchi, i professori hanno sempre aria concentrata e generosa, facendo dimenticare l’aria sorniona di altri contesti, tutti orologio, indennità e sindacato. Con Kazushi Ono, suo direttore musicale dal 2012, l’orchestra ha trovato una nuova alleanza e stabilità, con concerti che premiano sé stessa e gratificano il pubblico. Il 7 maggio, all’Auditorium Paganini di Parma, ascoltare Ono e la Toscanini fa sorridere di compiacimento: nella Serenata in Mi maggiore per archi op. 22 di Antonín Dvořák, e ancor più nella Sinfonia n. 4 in Fa minore op. 36 di Pëtr Il’ič Čajkovskij, impressionano lo slancio degli archi (che relega in secondo piano qualche difetto d’intonazione), la vivacità dei legni e il chiassoso fasto degli ottoni (è assai raro, in Italia, trovarne di tale qualità e insolenza).
Non bastasse, la stessa serata ha un’ospite d’onore nel soprano Anna Caterina Antonacci, interprete della cantata La mort de Cléopâtre di Hector Berlioz. Lì l’orchestra, fatta propria la singolare timbrica del compositore, si fa quasi scena alle spalle dell’attore. E l’Antonacci, fresca di trionfo nei Troyens alla Scala e in superba forma vocale e adrenalinica, monta in cattedra. Nel canto di sbalzo da un registro all’opposto, qui sollecitatissimo, ella è salda nell’estensione e omogenea di timbro; timbro noto: femminile, malinconico, con centri di velluto inusuale in un soprano. E poi l’accento, dalla patina linguistica al gesto vocale: in bocca all’Antonacci, il francese diviene serbatoio fonetico d’arte, dove ‘e’ muettes, liaisons, nasali e dittonghi sono gioco di suoni in quanto tali, poi parole colorate nel loro significato letterale ed espressivo, quindi frasi flesse nel loro senso retorico e infine supporto di un affetto globale calcolato dall’interprete; non si perde una parola, dai suoi suoni alla sua ragion d’essere. È ciò che dovrebbe avvenire sempre, ed è ciò che l’Antonacci ricorda essere invece prerogativa rara, quasi personale. Uno sguardo basta a istituire il palcoscenico: sotto il faro fisso che illumina la cantante, l’attrice ha istinto di collocarsi in quel raggio con lo charme e l’impero di chi lo stesse rubando a Caravaggio. Ancora nel segno di Berlioz, è un altro trionfo.
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