Il pretesto del comune riferimento tematico unisce le due opere e fornisce l’occasione della prima italiana del lavoro di Adam. Bene le scelte registiche e sceniche, efficace la direzione musicale di Ranzani e il cast
di Santi Calabrò foto © Rosellina Garbo
NOTO A TUTTI COME “l’autore di Giselle”, il balletto che gli regalò l’immortalità, Adolphe Adam riscosse un successo notevole anche con l’opera Le Toréador ou l’Accord parfait. L’occasione della prima italiana in versione originale, proposta con successo dal Teatro Massimo di Palermo in dittico con Cavalleria rusticana, inevitabilmente richiama i dati di ricezione originaria: Le Toréador va in scena ininterrottamente dal 1849 al 1869, deliziando i parigini con il suo “accordo perfetto”, quello raggiunto alla fine dalla protagonista Coraline e dal marito Belflor, anziano e donnaiolo torero, che viene convinto con un raggiro ad accogliere in casa anche Tracolin (amante della moglie). Significative anche le riprese dell’opera nella Parigi fin de siècle quando, nel Teatro in prosa, spopolava un lavoro come L’albergo del libero scambio di Feydeau: nel tema della deroga ai vincoli matrimoniali come occasione di comicità si coglie la Francia borghese dell’Ottocento più che il retaggio fuori tempo di una Mandragola.
Le inclinazioni dei personaggi sono umane e borghesi, ma tutta la drammaturgia, statica seppur vivace nei contenuti, sfugge al realismo
L’opera di Adam è poi tramata su citazioni musicali che rimandano al Settecento, ma il plauso dei contemporanei non deve ascriversi a un “manierismo” che, nell’Ottocento francese, non costituisce certo la cifra più richiesta al teatro musicale. A ben guardare gli imprestiti di musica settecentesca di cui è intessuto Le Toréador contribuiscono alla “distanza” teatrale e rassicurano il pubblico, che “sente” l’argomento ma non si ritiene direttamente raffigurato. Le inclinazioni dei personaggi sono umane e borghesi, ma tutta la drammaturgia, statica seppur vivace nei contenuti, sfugge al realismo e si risolve in una musica spumeggiante. Manca infatti qui quasi del tutto l’elemento dinamico, che costituisce la linfa originaria del comico in teatro. Se tuttavia è a partire dal genere comico che nel XVIII secolo la musica impara a commisurarsi all’azione, durante l’Ottocento, e tanto più all’altezza del Verismo musicale, i contenuti seri accedono spesso a un ritmo scenico incalzante. Ed è proprio questo il motivo per cui alla fine ci sembra che l’accoppiata Le Toréador e Cavalleria rusticana sia interessante. Il comune riferimento tematico a un triangolo amoroso, risolto in modo opposto, è un fatto di superficie. Nell’insieme si assiste a uno spettacolo in cui il cambio di passo vorticoso tra un’opera dove non succede quasi niente e un’opera di concentrazione spaventosa arreca un effetto di shock.
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Il clima drammaturgico disteso di Adam e Sauvage agisce ancora all’inizio della seconda parte, come una molla caricata che si libera al contatto con il dramma progressivamente incandescente di Mascagni. Bene ha fatto Marina Bianchi, regista, a non cercare improbabili collegamenti e a rispettare l’andamento peculiare della drammaturgia sia in Adam che in Mascagni, con scene di Francesco Zito opportunamente tutte diverse, metateatrali in Toréador e connotate tradizionalmente in Cavalleria (dove viene ripreso un bozzetto di Guttuso). Efficaci e non ovvie le luci di Bruno Ciulli. Ha diretto bene Stefano Ranzani, alle prese con due cast entrambi validi. Nell’opera di Adam svetta Laura Giordano (Coraline), sicura, flessuosa e disinvolta in scena e nella voce, con un fraseggio naturalmente espressivo; bravi anche Ugo Guagliardo, spigliato Don Belflor, e Christopher Magiera, un elegante Tracolin.
In Cavalleria rusticana si segnala la dinamica sommessa con cui vengono restituiti la gran parte dei cori. Questo coro flou concepito da Ranzani – e diretto da Piero Monti – riesce arcano, misterioso e anche un po’ mortuario, un efficace fondale per i personaggi che celebrano un sacrificio rituale. La vittima, cioè Turiddu, ha qui l’equilibrio e l’intensità di Carlo Ventre, mentre Luciana D’Intino (Santuzza) riesce quasi sempre a calibrare la prestanza vocale ed espressiva dei suoi mezzi debordanti con una lettura nell’insieme espressiva piuttosto che aggressiva. Alberto Mastromarino come Alfio è complessivamente bravo, ma ha il problema opposto, e dove la potenza è proprio necessaria non brilla; brava Valeria Tornatore come Lola. Chiara Fracasso è vocalmente una buona Lucia: curioso che sia lasciata in scena dalla regia durante la “sfida” con il morso all’orecchio, e perciò nel finale non si capisce perché è l’unica a non afferrare del tutto ciò che le dice Turiddu e quello che sta per accadere.
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