Meritato successo per la nuova produzione dell’opera di Bizet, in un felice incontro di raffinatezza musicale, elegante esotismo e colorismo scenico. Ottima la direzione e il cast
di Attilio Piovano
QUANDO COMPOSE i Pêcheurs de perles Bizet aveva poco meno di venticinque anni ed era già un genio; più propriamente, era un musicista di già solida formazione con una vena melodica pressoché inesauribile, una rara sensibilità armonica e un senso infallibile della drammaturgia: nonostante talora egli stesso, ipercritico e sempre in preda al rischio di cadere in depressione, dubitasse, invero del tutto a torto, delle proprie innegabili qualità che lo avrebbero condotto – si sa – a consegnare alla storia il capolavoro assoluto, Carmen. E in Pêcheurs, specie sul piano melodico e armonico, alcune innegabili anticipazioni balzano evidenti. Ciò detto i Pêcheurs non vanno assolutamente considerati quali opera di transizione, peggio ancora quale opera di apprendistato, necessaria, come si suol dire, per approdare al capolavoro. Al contrario, opera «fascinosa ed elegantissima», i Pêcheurs brillano di luce propria. Di recente li si era ascoltati in forma di concerto a Torino, per OSN Rai, e per un’opera un’esecuzione priva di scene è sempre una scommessa, ma anche una diminutio; ogni volta poi che li si ritrova in scena, ecco che i Pêcheurs regalano emozioni vivissime.
È accaduto all’Opéra Royale Liège Wallonie dove bene ha fatto il direttore generale e artistico Stefano Mazzonis di Pralafera ad includerli in cartellone (mancavano da tempo), offrendoli in una nuova produzione (in co-allestimento con Opéra Comique) per la regia di Yoshi Oïda, una regia pulita e allusiva, elegantissima e del tutto funzionale allo spettacolo. Ed è stato un trionfo di pubblico nel corso di complessive cinque recite (tra il 17 ed il 25 aprile) alle quali occorre aggiungere ancora la replica al Palais des Beaux Arts di Charleroi il 30 aprile.
Una regìa quella di Yoshi Oïda che, grazie alle scene essenziali e nel contempo assai suggestive dell’olandese Tom Schenk (un semplice fondale con colorazione azzurro-blu, pochi elementi quali alcune nasse di vimini e barche, o propriamente silhouettes di barche che, opportunamente sospese e illuminate rendono il mistero della luna nascente, nonché delicati ed allusivi cenni all’incendio finale del villaggio) ha ben messo in rilievo l’esotismo della partitura, un esotismo ri-creato con felici tratti; ottime le luci di Fabrice Kebour e fascinosi i costumi “fuori dal tempo” del britannico Richard Hudson, lontani da certa pittoresca oleografia e al tempo stesso di impatto; ancora molto azzurro-blu, a suggerire l’ambientazione marina, ma anche il rosso fuoco per la passione e l’amore che infiamma Leila, e poi il bianco dei veli. Ai lati due pareti specchiate a moltiplicare le prospettive.
Dichiarati, poi, ed espressamente voluti i motivi ispiratori ricercati nell’ambito di una civiltà scomparsa, sconosciuta e dunque esotica, volutamente lontana da ogni realismo, dunque da riferimenti sia storici, sia geografici, vale a dire quella di Okinawa l’antico regno delle isole Ryukyu, arcipelago giapponese, indipendente sin dal 1879, con la sua religione animista e il ruolo speciale attribuito alle donne quali garanti della sicurezza dei pescatori con le loro incessanti preghiere: da qui l’evidente somiglianza con il plot immaginato dai librettisti di Bizet per una vicenda ambientata (invece) nell’isola di Ceylon. Una regia che soprattutto – per esplicita ammissione di Yoshi Oïda – punta su quel singolare mix di eterni temi, amore, gelosia, generosità, altruismo, forti legami amicali ed altro ancora, del quale si sostanziano i Pêcheurs. La regia dichiara espressamente di aver concepito lo spettacolo – molto opportunamente – dal punto di vista di Zurga, il personaggio che infatti giganteggia per complessità, ma anche magnanimità di sentimenti, nel tentativo più che riuscito di inserire il conflitto dei sentimenti stessi al centro di una dimensione altra, universalmente valida e come tale riconoscibile, e dunque pienamente condivisibile.
E se del côté visuale dello spettacolo conserveremo a lungo graditi e vivaci ricordi, non meno incisiva è stata la realizzazione musicale, grazie ad un cast di alto livello e alla direzione, attenta, precisa, partecipe, raffinata e colta di Paolo Arrivabeni. Il direttore italiano ha potuto contare su un’orchestra in ottima forma, ben affiatata, con valide prime parti e bel suono. Fraseggi curati, tempi giusti, icastica nettezza, dove occorre, ma anche molta morbidezza di suono: tutto ciò ha saputo ottenere Arrivabeni, a buon diritto applaudito lungamente a fine serata. Determinante poi l’apporto del coro ottimamente istruito da Marcel Seminara.
Ed ora il cast. Gran successo personale del soprano Anne-Catherine Gillet che ha conferito partecipi accenti ai turbamenti della protagonista Leila, in bilico tra i doveri di sacerdotessa e il richiamo irrefrenabile dell’amore. Ottima tecnica, timbro particolare, bene nella parte e attraente presenza scenica: applausi vivissimi da parte di un teatro al gran completo. Marc Laho che già avevamo di recente apprezzato in Tosca proprio a Liège dove a quanto pare è di casa, ha affrontato la non facile partitura di Bizet con una coscienza professionale incredibile e il risultato è stato un’ottima, apprezzata performance. Impervia, la sua parte, e Laho, nei panni dell’innamorato Nadir, non ha mostrato segni di défaillance spingendosi all’acuto con sicurezza e precisione, più ancora trascolorando entro i vari sentimenti che la partitura prevede (ha raccolto meritati consensi in «Je crois entendre encore»). Successo a dir poco strepitoso (occorre sottolinearlo) per il baritono Lionel Lhote, una vera piacevole scoperta, nel ruolo contrastato di Zurga, personaggio dalle mille sfaccettature. Lhote ne ha dato un’interpretazione di alto profilo che a lungo ricorderemo con emozione, per intensità espressiva e perfezione tecnica. Bene poi anche il Nourabad del basso Roger Joakim.
Indimenticabili i vari momenti solistici (Leila in «Comme autrefois dans la nuit») e così pure i celebri duetti (è il caso di «Au fond du temple sainte», nell’Atto I, laddove il simultaneo turbamento di Zurga e Nadir al ricordo della donna che entrambi amarono è palpabile in ogni nota), giù giù sino al fatale, catartico epilogo che vede trionfare l’amore della giovane coppia e la generosa lungimiranza di Zurga stesso. Da ultimo, un plauso ancora alla volta del direttore per aver saputo rendere al meglio l’emersione dei temi musicali principali, sorta di liberissimi leitmotive, trascolorando dalle sommesse zone di rarefatta bellezza di cui la partitura è costellata alle drammatiche incandescenze di non pochi altri passi: vera e propria lezione di stile, di misura e di eleganza. Al suo indirizzo, come pure all’intera compagnia, a fin serata, sonori ed entusiasti bravò.