Il podio di Gianandrea Noseda, l’allestimento di William Friedkin (L’esorcista). Una direzione attenta a far comprendere a tutti come Aida non sia solennemente un’opera di masse e momenti sontuosi, bensì (se non principalmente) un’opera fondata sul collidere di conflitti personali, un’opera di scavo psicologico
di Attilio Piovano
Fastosa apertura di stagione al Teatro Regio di Torino, la sera del 14 ottobre 2015, con un’Aida di gran classe magnificamente diretta da Gianandrea Noseda. A Torino, si sa, di recente è stato riaperto il Museo Egizio, il secondo per importanza dopo quello del Cairo. Più che ragionevole, pertanto, la scelta del celeberrimo titolo verdiano per celebrare l’evento.
Ed ecco che è stato molto opportunamente ripreso l’allestimento di dieci anni or sono ideato dall’acclamato regista cinematografico William Friedkin (‘firma’ dell’indimenticabile Esorcista e premio Leone d’oro alla carriera 2013). Allestimento che, nonostante il tempo trascorso, mantiene tutta la sua validità, la sua vis e la sua efficacia dammaturgica. Ed è con piacere che abbiamo rivisto le scene di Carlo Diappi appaiate a costumi di ottima resa, comme il faut per un’opera kolossal qual è Aida. Scene pienamente secondo la tradizione, dunque monumentali e icastiche, con grandi statue e giganteschi blocchi marmorei (verrebbe da dire di faraonica bellezza) il tutto realizzato con grande stile, e non è cosa da poco in un’opera dove è sempre facile debordare nel kitsch e negli effettacci della carta pesta (unica lieve caduta di gusto, forse, il trascorrere in scena di una barca con le allusive figure ‘egizie’, insomma le sovra dimensionate sagome dovute a Michel Curry, animate a vista).
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Buoni e di grande impatto i movimenti di massa ad effetto, già nel primo atto in cui Radames viene indicato dalla dea Iside quale supremo condottiero contro gli etiopi e riceve l’investitura dal re, e poi l’apoteosi con la celebre scena corale (in tutti i sensi della parola) del second’atto (‘Uno degli ingressi della città di Tebe’) con irrompere di soldati con alabarde e gonfaloni, sfilata di truppe ordinate e simmetriche; e la celeberrima «Marcia trionfale» con le trombe in palcoscenico (che Noseda rende solenne, ma senza eccessiva enfasi).
Tra i momenti scenici di maggior efficacia di certo il finale scena prima del quarto atto, allorquando i sacerdoti escono dalla sala del giudizio e Amneris lancia la sua invettiva. Davvero molto emozionante, così pure la scelte cromatiche e le ottime luci di Andrea Anfossi e allora sfolgorio e scene luminose per i momenti ‘trionfali’, ma anche iridescenti blu cobalto per il ‘notturno’ sulle rive del Nilo, per contro il rosso per l’altare del dio Vulcano, luci tenui invece per i momenti più intimistici e allora l’inizio del secondo atto (scena prima), poi terzo e quarto atto, vale a dire quelli del dramma umano di Aida, Radames e Amneris con lo sfruttamento abile dei ponti mobili per rendere il senso della cupa tomba sotterranea a racchiudere Aida e Radames e Amneris sovrastante. Molto ammirata inoltre la vasca con effetti di luce riflessa che pare una citazione del Bagno turco di Domenico Morelli in versione egizia.
Molto apprezzate, come già dieci anni or sono, le gradevoli coreografie ‘in stile’ ideate da Marc Ribaud (e ora riprese da Anna Maria Abruzzese). Si sa che Aida ebbe origine da una circostanza celebrativa, e dunque trova piena giustificazione l’inserzione di svariate danze che Verdi concepì con inflessioni di sapore vagamente orientale. Sicché per conseguenza, le appropriate coreografie giocano il loro ruolo adeguato.
Ottima sotto tutti i punti di vista la direzione di Noseda: una direzione coerente e sorvegliatissima. Una direzione attenta a far comprendere a tutti come Aida non sia solennemente un’opera di masse e momenti sontuosi, bensì (se non principalmente) un’opera fondata sul collidere di conflitti personali, un’opera di scavo psicologico. E lo si è compreso sin dalle note iniziali, e poi nei vari momenti volti ad evidenziare l’interiorità dei personaggi. Molto azzeccate le scelte dinamiche di Noseda, molta eleganza, ad esempio, nell’affrontare le succitate danze che altri direttori sfruttano per un esercizio esteriore, con eccessi di sgargianti cromie e ritmi troppo squadrati. Noseda al contrario ha mano lieve in tali casi, non forza mai, e di conseguenza i momenti scintillanti appaiono ancora più efficaci. Pone grande cura nei molti recitativi orchestrali, svelando una capacità incredibile di evidenziare anche minimi dettagli timbrici, ottenendo indicibili e dolci pianissimi nei momenti più intimistici della celeberrima partitura verdiana, ma anche abile nell’infondere una stupefacente carica energetica e ritmi incalzanti dove occorre: ben assecondato da un’orchestra, quella del Regio, davvero in ottima forma in tutte le sue sezioni.
Ed ora le voci: su tutte ha giganteggiato l’ottima Anita Rachvelishvili nel ruolo di Amneris, rivale in amore della protagonista, figlia del re magnanimo che concederà la grazia ad Aida stessa e al padre. E la Rachvelishvili, ovviamente, ha dato il meglio di sé nell’ultima parte dell’opera dove il suo ruolo assume un rilievo innegabile (molto bene nell’atto II il duetto «Fu la sorte dell’armi»). Grande prova, la sua, assai applaudita a fine serata. Bene anche Kristin Lewis nel ruolo impervio della protagonista Aida. Suoni filati e pianissimi al limite dell’udibile, ma anche potenza sonora; molta eleganza e notevolissima raffinatezza nell’emissione vocale, ottimi fraseggi, nei vari momenti topici che le competono sia nei passi solistici («Ritorna vincitor», o più oltre «O cieli azzurri») sia nei duetti con Radames (e allora «Pur ti riveggo mia dolce Aida») pur in presenza di una certa qual discontinuità, con cose davvero molto belle ed emozionanti e qualche occasionale cedimento. Un Radames, il tenore Marco Berti, inizialmente incerto, con défaillances di intonazione nella sublime e celeberrima «Celeste Aida» poi andate in parte risolvendosi nel corso della serata. Ha voce che corre e notevole potenza sonora, sfodera stentorei acuti anche se non sempre il controllo è perfetto. Ha rivelato buona humanitas: commovente la scena del commiato finale con la tomba che si richiude sul suo immortale amore per la schiava etiope Aida e Amneris pentita che invoca gli dei sopra la pietra tombale.
È parso assai convincente anche il navigato Mark S. Doss nei panni di Amonasro re d’Etiopia e padre di Aida per la ieratica presenza, autorevolezza, dignità e virilità che ha saputo conferire alla sua parte, ma soprattutto per la capacità di cogliere appieno le non facili sfumature del personaggio; laddove Giacomo Prestia (Ramfis) ha un vibrato talora fin eccessivo, pur avendo disimpegnato con correttezza la sua parte. Tutti allineati su un buon standard i restanti comprimari. Tra i momenti di assieme di rilievo «Su pel Nilo» affrontato con baldanzoso incedere.
Ottimo come sempre il coro, istruito da Claudio Fenoglio (assai ammirato il «Gloria all’Egitto» per possanza sonora, ma indimenticabili altresì certe sillabazioni delicate e rarefatte). Da ultimo un dettaglio. Per la prima volta al Regio (stante anche la presenza di una nutrita delegazione di ospiti stranieri in sala) sopratitoli in italiano e in inglese ed è un bel segno di internazionalità. Ciò nonostante fa un certo effetto vedere tradotti i versi di Ghislanzoni con anglosassone concisione e allora, per dire, «T’appressa» che diviene un laconico «Come here», e via elencando. Ma va bene così.
Spettacolo dunque in complesso eccellente, applaudito a lungo da un pubblico foltissimo. Insomma un inizio di stagione sotto ottimi auspici per un cartellone che si preannuncia ricco di bei titoli con ottimi cast, direttori e registi di spicco. Repliche di Aida sino al 25 ottobre con un doppio e in alcuni casi addirittura triplo cast. Nei ruoli principali si alterneranno infatti Anna Pirozzi (Aida), Anna Maria Chiuri e Ekaterina Gubanova (Amneris), Riccardo Massi e Massimiliano Pisapia (Radames) e infine Dimitri Platanias (Amonasro).
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