Il giovane pianista si è esibito a Milano dove ha proposto pagine di Beethoven, Brahms, Prokof’ev
di Luca Chierici foto © Dominik Skurzak
A VENTICINQUE ANNI SI PUÒ MATURARE a ritmo molto veloce. Lukas Geniušas ci sembrava un ragazzino due anni fa – ne aveva 23 – quando debuttò per la Società dei Concerti dopo avere vinto tre anni prima il secondo premio ex-aequo con Ingolf Wunder al Concorso Chopin del 2010. Allora si era presentato con un programma degno della migliore tradizione russa (Ventiquattro studi di Chopin e la Sonata di Liszt), aveva già impressionato per un approccio che ricordava quello granitico di Lazar Berman e si era espresso attraverso una timbrica non particolarmente affascinante ma neppure deliberatamente “cruda” e richteriana che egli deve avere maturato in questi ultimi due anni sia come esito di una maturazione fisica inattesa ( suona davvero con tutto il corpo e a volte sembra caricare sulle dita tutto il peso della sua sana e robusta costituzione, alzandosi praticamene in piedi) sia a causa dello sforzo fisico cui sono sottoposti gli strumentisti che partecipano frequentemente ai concorsi (nel frattempo, en passant, Geniušas ha vinto anche il secondo premio al Čajkovskij del 2015, scusate se è poco).
A Geniušas non interessa evidentemente il “bel suono” come generalmente lo si intende, ma pensiamo che con il tempo avrà modo di riconsiderare quello che appare oggi il suo limite più evidente, dovuto anche a un tipo di tecnica che non lascia molto spazio a quel tipo di ricerca. A confronto con il recital del 2013, quello dell’altra sera presentava una impaginazione piuttosto criptica. Il programma iniziava con la Sonata op. 10 n.1 di Beethoven: anche in questo caso mancava il fascino del suono e di un fraseggio più disteso che sarebbe auspicabile per commentare una pagina pur sempre risalente al 1798 e ricca di melodie e abbellimenti sopra i quali molti pianisti si soffermano volentieri con i lori ricami. Ma qui, come a maggior ragione nel seguito della serata, la determinazione del pianista ha giocato un ruolo essenziale e Geniušas è riuscito ad imporsi con la forza delle proprie idee anche andando piuttosto controcorrente, occupandosi solo del lato assertivo del “Beethoven in do minore” ossia sottolineando il cosiddetto Wiedestrebende Prinzip senza soffermarsi sul Bittende.
I due elementi più importanti del programma erano rappresentati dalla Sonata op.1 di Brahms e dalla settima sonata di Prokofiev. La sonata di Brahms è di raro ascolto perché tremendamente difficile e rischiosa. Ne ricordiamo esecuzioni molto belle in concerto da parte dell’anziano Richter e più recentemente di Sokolov. Con quella sonata si era presentata la prima volta qui in Conservatorio nel 1978 Elisso Virsaladze sorprendendo il pubblico con una proposta che sembrava quasi proibitiva. Anche in questo caso Geniušas non ha sottolineato certi particolari timbrici e probabilmente la poesia trobadorica dell’incipit del movimento lento non è ancora del tutto alla sua portata. Ma questo giovane ha una vita davanti a sé, e siamo sicuri che non potrà che estendere e ulteriormente migliorare quelle che sono le sue già notevolissime doti di musicista, veicolate ad esempio nella straordinaria lettura delle ultime pagine di questa irruente prova del primo Brahms.
L’ inflazionatissima sonata di Prokof’ev, è uscita dalle sue mani con una perentorietà assoluta e un esito davvero straordinario. Qui Geniušas ha scelto di eseguire il Finale iniziando con un tempo moderato e con un’attitudine forse troppo poco “precipitata” come vorrebbe la didascalia originale, ma seguendo una consuetudine interpretativa che si può fare risalire alle prime esecuzioni di Horowitz è stato capace di gestire un crescendo continuo fino a giungere a una chiusura davvero travolgente. Sulla difficoltà di un lavoro come le Burlesche op.8c di Bartok non stiamo ad insistere: anche in questo caso Geniušas ha rivelato una padronanza invidiabile del mezzo pianistico. Qui si è iniziato a notare una caratteristica del pensiero di Geniušas tutt’altro che secondaria, cioè la tendenza a post-datare la collocazione di certe composizioni, o almeno di suggerire questa impressione, tanto che la prima Burlesca sembrava a tratti uno studio di Ligeti e il primo bis un pezzo breve di Prokofiev o di Rachmaninov (e invece era la molto più mite Vision di Grieg).