La giovane pianista, vincitrice di importanti premi internazionali, ha suonato a Torino un programma interamente dedicato al compositore polacco
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di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
GIÀ VINCITRICE ASSOLUTA del Concorso di Ginevra 2014, la sudcoreana Chloe Mun ha sbaragliato anche al Busoni 2015, tra i più blasonati concorsi pianistici internazionali, soprattutto – si sa – uno tra i più ‘duri’ dove le selezioni sono severissime. Sicché da chi esce laureato in tale competizione ci si aspetta davvero molto. Prima asiatica nella storia del Busoni a giungere sul podio, la Mun pare ricalcare le orme di Martha Argerich che analogamente nel 1957 vinse entrambi i premi. Un segno di buon auspicio, per una promettente carriera. I numeri ce li ha tutti, e non a caso ha già suonato da solista e con orchestra in Giappone, Polonia, Francia, Italia, Germania e Repubblica Ceca. Classe 1995, fisico minuto, ma una grande determinatezza e una spiccata personalità musicale, è approdata a Torino, presso la Sala Cinquecento del Lingotto dove si è esibita in occasione del concerto inaugurale per la stagione dei giovani. Sala piena, molti i musicofili e gli esperti, critici e soprattutto un nutrito parterre di giovani – il pubblico di domani – per una giovanissima e già agguerrita pianista che ha offerto un programma per intero chopiniano.
Per fortuna, però, ci troviamo dinanzi a una pianista che non ha l’aggressività atletica di molte altre macchine da concorso e questo è un gran bel pregio
In apertura del suo recital monografico, la sera di martedì 10 novembre, campeggiava lo Scherzo op. 54 e subito Chloe Mun stupisce nei passi volanti e nei tratti sognanti, per il leggiadro gioco perlaceo, il bel cantabile e la corposità dei bassi. Certo, può crescere ancora ed acquisire maggior gamma coloristica e un più libero abbandono (in apertura era molto ‘tenuta’ e l’emozione fa sì che qualche nota venga sporcata, ma siamo pur sempre di fronte ad una ventenne). Ha dalla sua un già maturo senso della forma che conferma poi anche nella Polonaise-Fantaisie op. 61 dove ha modo di svelare un sapiente gioco di timbri, pur in presenza di qualche asprezza. Per fortuna, però, ci troviamo dinanzi a una pianista che non ha l’aggressività atletica di molte altre ‘macchine da concorso’ e questo è un gran bel pregio. Certo dovrà acquisire una buona dose di magnetismo per saper conquistare il pubblico, ma ha tempo per crescere e maturare. Coglie bene il senso di profonda melanconìa di questa pagina sublime ed è già abile nel calibrare le risorse. E allora quella che pare una certa monocromìa nella parte centrale è in un realtà la pista di lancio per far conflagrare il fuoco, sbrigliare le dita e la fantasia nella spasmodica eccitazione della parte conclusiva.
Poi affronta quel monumentum visionario e profetico che sono i 24 Preludi op. 28, «rovine e penne d’aquila, il tutto disposto selvaggiamente alla rinfusa» secondo la celeberrima definizione dettata da Schumann. La Mun rivela una complessiva ottima tenuta (anche psicologica) e una sua visione corretta e già ben individuata dell’intera raccolta, con alcuni apici, quanto ad emozione: è il caso del n. 15 (notissimo in re bemolle maggiore) entro il quale riesce a regalare un cantabile di fascinosa timbratura nella parte iniziale per poi costruire con abilità il poderoso climax della zona mediana. Coglie bene il senso aforistico di molti di questi Preludi, spesso brevissimi e lancinanti. E allora la vaporosa leggerezza del primo, la cupa tetraggine simbolista del secondo (ma l’avremmo voluto un po’ più alonato, con un suono più ‘pre-impressionista’), bene le screziature capricciose del terzo; niente smancerie e un delizioso cantabile nel quarto e il giusto spirito salottiero e leggiadro nel quinto; forse nel sesto con quella melodia di violoncello alla sinistra si sarebbe potuto giocare maggiormente quanto a timbratura, e così pure il settimo (una smagata Mazurka di dimensioni brevissime): la Mun lo prende fin troppo sul serio. Per contro restituisce tutta la poesia dovuta alle suggestive macchie di colore del n. 8, la densità armonica del nono, la scioltezza del decimo e la delicata leggerezza del successivo. Qua e là qualcosa non convince: per dire, nel n. 12 deve conquistare in termini di pathos, e quel senso dell’affannoso incalzare che per ora resta solo preconizzato, in fieri e del tutto in nuce; anche nel n. 13 desta minime perplessità e si vorrebbe più gioco di pedale, ma sono piccole cose a fronte di momenti assai emozionanti come ad esempio il carattere fantasmatico del n. 14 e il tono già quasi schumanniano del successivo che la Mun focalizza al meglio. Sfodera un virtuosismo misurato ma efficace nel n. 18, giganteggia nel n. 20, introspettivo e tetro, come di corale, giù giù sino all’ultimo del quale mette a punto il carattere visionario, incandescente e profetico per l’appunto.
Gli applausi fioccano protratti e tutti hanno compreso di trovarsi dinanzi a un talento naturale di notevole spessore, soprattutto per le qualità musicali e la naturalezza, ma anche l’interiorità con cui suona: specie se paragonata, merita ribadirlo, con le frivole e superficiali interpretazioni di tanti pianisti che oggi vincono i concorsi puntando solo sul virtuosismo atletico e abbacinante, senza una vera sostanza; qui al contrario la sostanza musicale c’è e negli anni la maturazione e l’evoluzione non potranno che essere di segno positivo.
La Mun si conferma una pianista di classe anche nel primo fuori programma, la Barcarola op. 60 che un giorno, forse, suonerà con qualche abbandono in più e con maggior eccitazione e soprattutto più attenzione ai sublimi collegamenti enarmonici… ma sono disquisizioni tecniche ed annotazioni fin troppo ipercritiche. In chiusura di serata regala un secondo bis, e si tratta di Widmung di Schumann nella iridescente trascrizione lisztiana.