Il concerto d’inaugurazione della Filarmonica del teatro milanese con il suo nuovo Direttore principale ha visto l’interpretazione di opere di Maderna, Stravinskij, Rachmaninov
di Luca Chierici foto © Luca Piva
LA SERATA FESTOSA che ha aperto la stagione della Filarmonica della Scala con un concerto del suo nuovo Direttore principale si è svolta, come accade oramai sempre più frequentemente, all’insegna di scelte di programma che non concedevano molto alle aspettative di un pubblico tradizionale. L’inclusione di un lavoro giovanile di Bruno Maderna va vista sia come corollario all’omaggio che viene quest’anno offerto al compositore veneziano da parte di Milano Musica, sia come supporto pratico a una iniziativa editoriale, la recente pubblicazione di alcuni manoscritti che erano rimasti inediti. L’elemento relativo al recupero e allo studio da parte di Maderna della musica antica – in questo caso risalente addirittura al dodicesimo secolo – denuncia una consuetudine che discende dal rapporto didattico che il musicista ebbe con Gian Francesco Malipiero.
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L’Introduzione e Passacaglia, del 1942, ha attirato l’attenzione di Chailly, che ha dichiarato esplicitamente il proprio interesse per questo lavoro singolare e ha sottolineato la profonda conoscenza da parte di Maderna sia del contrappunto e dello stile antico che di quel capolavoro stravinskiano che è la Sinfonia di Salmi (1930), le cui suggestioni sono qui molto evidenti. Un altro Stravinskij, quello del Concerto per violino (1931), era capace di imprimere una svolta alla serata sia per la presenza di un solista di rilievo come Julian Rachlin che per la dimostrazione di quali siano i confini tra la musica ispirata e ben scritta e l’opera di un genio. Nel Concerto, Stravinskij è capace di interpretare la realtà (in questo caso la musica di Bach) attraverso una prospettiva del tutto singolare, paragonabile per portata eversiva a quello che fu il Cubismo per le arti figurative. E la mutazione prospettica diventa essa stessa nuova forma d’arte e di espressione, lontana anni luce dagli esempi originali.
Rachlin è un violinista che conosciamo da almeno quindici anni attraverso il suo impegno sul versante della musica da camera, soprattutto a fianco di un pianista eccezionale come Itamar Golan, e anche se non ha dalla sua un suono di intensità e volume straordinari per una sala gigantesca come quella della Scala, riesce attraverso una musicalità di tutto rispetto a imporsi anche in ruoli solistici estremamente impegnativi come è il caso di questo difficilissimo Concerto stravinskiano, e a ruota nella difficile Terza sonata di Ysaye, concessa come bis.
Un particolare non secondario – una cellula unificatrice di tre note derivabile dalla liturgia ortodossa – ma secondo noi non sufficiente a giustificare un forte parallelismo con la prima parte della serata, lega la Terza sinfonia di Rachmaninov (1936) al mondo della musica sacra. Chailly ha ripreso da par suo in mano una partitura che rischia di offrire una visione dove prevale la frammentarietà e che, nonostante la non esattamente favorevole accoglienza che le era stata riservata alle prime esecuzioni, ha finito in questi anni per essere riproposta non così raramente come si potrebbe pensare (solamente in teatro la si è ascoltata due volte negli ultimi vent’anni, con Fedosseev e Maazel, e un altro direttore italiano, Gianandrea Noseda, l’ha fatta ascoltare con successo in Inghilterra e altrove).
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