Il duo ha eseguito pagine di Schubert e Beethoven alla Società del Quartetto di Milano alternando il quattro mani ad esecuzioni solistiche
di Luca Chierici foto © Felix Broede/DG
Il ritorno di Maria João Pires al Conservatorio per la Stagione della Società del Quartetto è avvenuto secondo un protocollo insolito che ha visto la grande pianista suonare assieme a una propria allieva, la trentunenne armena Lilit Grygorian, in un programma che prevedeva due grandi lavori per pianoforte a quattro mani estratti dallo stupefacente forziere di tesori usciti dalla penna di Schubert. Entrambe le pianiste eseguivano poi due sonate di Beethoven (la 101 e la 111) e assistevano alla reciproca esibizione alternandosi a un tavolino appositamente apparecchiato sul palcoscenico. La presenza di ospiti in sala e soprattutto di quelli allocati sul palcoscenico è sempre fonte di preoccupazione per il malcapitato soggetto che si deve produrre di fronte al pubblico.
Ricordiamo che tanti anni fa l’anziano Nikita Magaloff, in occasione di un concerto a lui dedicato da parte del Festival di Brescia e Bergamo, dovette suonare mentre su un divanetto erano accomodati la moglie Irène e altri personaggi influenti del mondo musicale, cosa che gli procurò uno stress non indifferente, risolto peraltro al termine del concerto, in camerino, con una grande risata liberatoria. Lilit Grygorian si trovava in un frangente ancora peggiore, perché alla preoccupazione di suonare come se partecipasse a un esame si sommava sia l’occasione del debutto milanese, sia la scelta poco opportuna di una pagina così insidiosa come la Sonata op.101 di Beethoven. Nel caso di Horowitz, per ottenere una copia senza errori della stessa sonata in vista di una pubblicazione in disco, i tecnici della Sony dovettero tagliuzzare e incollare una decina di registrazioni tratte da altrettante serate. E in quel caso gli errori manuali erano comunque bilanciati da un’arte del fraseggio e del tocco che aveva qualcosa di sovrumano (ma chi ha scritto temporibus illis che Horowitz non era un pianista beethoveniano?).
La veemenza con la quale le due pianiste si sono letteralmente gettate sul Rondò faceva a tratti pensare alla più composta allure di un duo schubertiano d.o.c. come era quello formato da Demus e Badura-Skoda
La Grygorian, personaggio che ispira a pelle molta simpatia e che sembra entrare nella musica con tutta se stessa, si è rivelata non del tutto adatta alla prova e se ne è uscita con una esecuzione non più che corretta. A riprova di questo fatto, il peso della Grigoryan nei due casi in cui ha affiancato la Pires nel programma schubertiano era palesemente sbilanciato: l’esecuzione del Rondò, dove ella suonava la parte del Primo (ossia quella al registro acuto) non ha raggiunto la bellezza di quella della Fantasia in fa minore, dove i ruoli delle due pianiste erano invertiti e dove la Pires esibiva un cantabile affascinante.
Lo spettacolare Rondò D 947 di apertura della serata era dunque più Sturm che Leben e faceva riflettere non tanto sulla possibilità di una esecuzione più contenuta, in linea con il classicismo schubertiano, ma sulla straordinaria arte della modulazione fra tonalità lontane che è così frequente nell’ultima fase creativa del musicista austriaco e che ti da un’impressione simile a quella che si può provare durante un terremoto di lieve entità, come quelli che raramente colpiscono la pianura padana nei nostri dintorni. In entrambi i casi si assiste a una perdita di controllo del proprio orientamento che genera sì un certo timore ma che tutto sommato ci lascia in uno stato di divertita sorpresa. La veemenza con la quale le due pianiste si sono letteralmente gettate sul Rondò faceva a tratti pensare alla più composta allure di un duo schubertiano d.o.c. come era quello formato da Demus e Badura-Skoda, che avevano eseguito lo stesso pezzo al Quartetto almeno una volta nel corso di cinque appuntamenti che non esiteremmo a definire storici, avvenuti tra il 1957 e il 1989. Ma la lettura del Duo Pires-Grigoryan proseguiva rispettando una propria coerenza interna, e ciò basta.
A marcare lo scarso impatto poetico e la non particolare eccellenza timbrica della lettura beethoveniana da parte della Grigoryan contribuiva infine l’appassionata esecuzione della Sonata in do minore op. 111 offerta dalla Pires. In occasione del quarto concerto di Beethoven suonato dalla pianista portoghese alla Scala qualche mese fa avevamo scritto che, in possesso di un fisico gracile e minuto, la Pires si trasformava in una specie di colibrì svolazzante da una parte all’altra della tastiera e vibrava in corrispondenza dell’esecuzione dei numerosissimi trilli che popolavano la sua parte. Non ci potevamo però attendere che la Pires affrontasse l’ancora più proibitiva Sonata con la forza derivata dal movimento di tutto il corpo, impegnato in una sovrumana lotta per vincere le terribili difficoltà di una scrittura pianistica che non a caso è stata spesso definita come concepita contro lo strumento. Da questo coinvolgimento totale usciva un suono a volte gigantesco, a volte etereo, sempre perfettamente indirizzato alla realizzazione del messaggio musicale. Ma ciò che portava lo spettatore a vivere momenti di vera e propria commozione era la totale concentrazione fisica e psichica di questa grande musicista, che a un certo punto diveniva quasi appendice del nero strumento, con il viso illuminato da un sorriso disarmante, gli occhi chiusi nei passaggi più intimi che scorrono nelle ultime pagine del capolavoro beethoveniano, là dove sembra davvero che non possa esistere la possibilità di andare oltre.
Ho partecipato allo stesso concerto al conservatorio di Torino, la sera seguente. Sono completamente d’accordo con le osservazioni su Pires 111; aggiungo l’emozione di vedere una pedalizzazione stratosferica: la Pires vola, i suoi piedi non toccano mai terrà! E il suono che ne esce è pura emozione. La stessa emozione l’ho provata nel primo allegro schubertiano, dove la Pires al basso sfumava con pedale e agogica un’esecuzione che la partner squadrava con brutalità. Tale miracolo non riusciva nella fantasia: il cantabile sovrumano Pires-schubertiano è stato involgarito da un rozzissimo basso. E qui la Pires, pure ai pedali, non pedalava. La 101 fu al disotto di ogni commento.