1 – Sguardi sulla regìa | L’opera di Umberto Giordano torna nel teatro milanese dove fu diretta la prima volta da Toscanini nel 1924. Oggi sul podio Carlo Rizzi con la regìa di Mario Martone
di Cecilia Malatesta foto © Brescia&Amisano
CERTE SERE ACCADE CHE UNA SCARICA DI FUCILATE ti inchiodi alla poltrona di velluto e ti levi il fiato; peccato non essere al cinema, ma in platea, alla Scala. Accade quando in Teatro torna La cena delle beffe, nella prima ripresa milanese a 90 anni dal suo debutto (era andata in scena il 20 dicembre 1924); e accade quando si abbandona l’ambientazione quattrocentesca prescritta dal libretto e dal precedente omonimo dramma del futurista ed eclettico Sem Benelli e ci si catapulta in un caseggiato dell’East Harlem, nella Little Italy dove al ristorante si mangiano spaghetti al sugo e al piano di sopra si fa l’amore in una linda stanza con chiara carta da parati, abat-jour e quadretti ordinatamente appesi.
La storia di tante anime dannate – poiché nessuno, o quasi, si salva – è una storia di prevaricazione, di amore e di vendetta
Preparata da un battage che in città annovera in questi giorni una rassegna cinematografica dedicata al regista, incontri con la scenografa Margherita Palli e conferenze preliminari alle repliche, la nuova produzione scaligera punta su quel duo consolidato – regista Mario Martone e Carlo Rizzi sul podio – che si era già vista nel Dittico verista Mascagni-Leoncavallo della scorsa stagione. Tutto funziona alla perfezione, anche grazie a un cast di buon livello e dalla riuscita capacità attoriale, non sempre facile da combinare con un elevato impegno tecnico delle parti vocali che richiede in particolar modo a Giannetto (Marco Berti) una vera e propria prova di forza brillantemente superata.
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Martone opta per un salto in avanti di oltre quattrocento anni, rendendo omaggio all’epoca della prima dell’opera e ambientando la “sua” cena negli stessi anni, ma oltreoceano, là dove non vi era quel regime fascista che ha spesso distorto la ricezione dell’opera, ma dove proliferava la malavita newyorkese, l’epoca del proibizionismo e delle retate. E in cui aleggia, come nel dramma di Benelli la presenza del Magnifico (Lorenzo de’ Medici), l’aura di un boss a cui tutti, in qualche modo, devono rendere conto. Un mondo dove le donne contano e Ginevra diviene la venere nera Kristin Lewis, convincente nella sua pelliccia bianca e tra le piume rosa della sua vestaglia di serva promossa a concubina.
Del resto, il gusto medievalista del dramma, lasciato intatto nell’opera di Giordano, così come nel successivo film del 1942 di Blasetti, era niente più che influente di una cassapanca nell’angolo, di qualche alabarda e spada appesa ai muri, della chiesa di San Miniato che si scorge oltre la finestra. La storia di tante anime dannate – poiché nessuno, o quasi, si salva – è una storia di prevaricazione, di amore e di vendetta; storia delle più elementari, di due fratelli (Neri e Gabriello) che tiranneggiano un giovane (Giannetto) malauguratamente innamorato della stessa donna (Ginevra) e che per vendetta ordisce una beffa ai danni del primo dei due, il concubino dell’amata; beffa che, diremmo oggi, gli scappa un po’ di mano per efferatezza e crudeltà, e per la quale perde anche l’oggetto del suo amore. E allora via la Firenze medicea e ben venga il caseggiato a tre piani di mattoni rossi, infissi bianchi e scale esterne antincendio che si alza e si abbassa a sipario aperto, portando a livello palco, di atto in atto, il ristorante dove si assiepano astanti in doppiopetto e borsalino, la casa di Ginevra, con le stanze e i corridoi teatro delle efferatezze dell’ultimo atto, la cantina in cui si svolge la scena della pazzia di Neri (ottimo Nicola Alaimo) legato come bestia imbizzarrita: e allora quel composto concertato che nel 1924 era stato bollato come inappropriato per una scena di follia, diviene qui un riuscitissimo fermo immagine cinematografico.
Ma non è solo una trovata ben congegnata che affidata alle mani di un regista di cinema acquista davvero il piglio e il ritmo di un film gangster, oltre che giovarsi di una serie di riferimenti visivi che spaziano da Il Padrino a Gli Intoccabili, a Vertigo di Hitchcock; nel block di Harlem si attua un’evoluzione dei personaggi femminili sconosciuta all’opera di Giordano e ancor più al dramma di Benelli del 1909; se la richiesta del compositore all’eclettico drammaturgo era infatti stata per la prima scaligera l’aggiunta di diciassette versi per consentire un arioso di Ginevra nell’atto II (L’amore s’alimenta di stupore) che affinasse la sensualità di un personaggio relegato a banderuola dedita a soddisfare le passioni e le morbosità dei suoi tre uomini, la lettura di Martone sembra proseguire in questa direzione. E restituisce alla figura femminile la centralità di una donna tentatrice, sì, ma che ha, almeno, speranza di credere di poter gestire la bestialità di un Neri animalesco, un Gabriello lucido di brillantina e arroganza, e la spericolatezza, non meno fatale, di un Giannetto innamorato. La carica erotica e sensuale di Ginevra si allarga a una nuova, più articolata e universale coscienza del corpo femminile estendendosi a una Cintia che durante il duetto d’amore Ginevra-Giannetto dell’atto II si masturba e gode nella stanza affianco e una Lisabetta che, in un finale da cuore in gola, vendica l’amato con una strage a colpi di mitra. Alla donna l’onore di un finale dilatato, che lascia spazio al vero dramma umano, poiché degli uomini, ottenebrati da tutto quest’orrore, non si sa se sian pazzi o sian savi.
Applausi, brevi ma sentiti, per tutti, nonostante qualche dubbio serpeggi in platea: allestimento dall’inutile e banale ammiccamento? Inutile come una serata al cinema con un thriller di qualità, o una notte di sesso.
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