Unica data italiana per i due violoncellisti. Analisi di un fenomeno di costume. Inevitabile interrogarsi su quale sia la fascia di mercato che hanno colmato. Quale la domanda per cui forniscono una degna offerta?
di Luisa Sclocchis
La classica avvicina agli altri generi o gli altri generi avvicinano alla classica? Nel caso dei 2Cellos, duo di violoncellisti croati, Luka Šulić e Stjepan Hauser, dal singolare appeal, il quesito non trova la consueta risposta. Gli ordini appaiono sovvertiti. Se, nel caso di artisti come David Garrett, Igudesman&Joo o le Salut Salon (e il Quintetto Bislacco e Quartetto Inverso), l’intento evidente è quello di stregare il pubblico altro e catturarlo nel nome della classica, in questo caso l’operazione suscita qualche perplessità in più. Ad ospitarli, lo scorso 11 maggio, per l’unica data italiana, un’Arena di Verona da tutto esaurito. Nonostante il cielo plumbeo minacciasse pioggia, un pubblico variegato li ha accolti con grande entusiasmo. D’altronde, loro si ripropongono, non solo di erudire i giovani sul repertorio classico, ma di travolgere gli usuali ascoltatori di classica con le loro riletture rock. Sono ormai un incontestabile fenomeno di costume.
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Aprono la serata con un “This is not a classical concert so you can relax. Just enjoy and have fun…” e, come dare loro torto, ciò che dai giovani è meno amato della musica classica è la compostezza del concerto inteso come rito ancora un po’ troppo elitario. Si, saranno retaggi culturali e pregiudizi duri a morire, ma loro agiscono esattamente su questi meccanismi, mettono a nudo quelle che ancora sono carenze o mancanze di comunicativa di cui il mondo della classica è colpevole. Agiscono su quelle piccole e scomode coercizioni associate al velluto rosso delle sale da concerto, alle location esclusive, agli inchini formali, al silenzio, alla mise elegante e nera, all’immagine del musicista austero e inavvicinabile. Rompono gli schemi e le distanze, dialogano con il pubblico, coinvolgono con simpatiche gag e frasi ammiccanti. Suonano violoncelli elettrici amplificati, aprono la serata con l’atmosfera suadente di Piazzolla e propongono una scaletta prevalentemente pop e rock: spaziano da Sting a Morricone, da Michael Jackson ai Nirvana, dagli AC/DC ai Rolling Stones. Per poi concludere con Bach.
Certo, l’immagine oggi ha senz’altro un certo peso, sono piacenti e ben curati, ma d’altronde così è stato fin dai tempi del mostro sacro della storia del violoncello Pablo Casals. Un aneddoto, infatti, narra della proposta di cachet superiore da parte del suo agente a patto che il grande virtuoso catalano, quasi privo di chioma, avesse accettato di indossare un toupet di capelli fluenti. Perché scandalizzarsi, quindi? Piuttosto è inevitabile interrogarsi su quale sia la fascia di mercato che vanno a colmare. Quale la domanda per cui forniscono una degna offerta? Ma di innegabile c’è che a seguirli fossero spettatori di ogni età, liberi di cantare e muoversi al ritmo delle melodie da loro proposte. E se questo consentirà a molti giovani di superare il pregiudizio verso la musica classica e i suoi interpreti. Se li convincerà che possono non essere anacronistici parrucconi o personaggi dediti unicamente allo studio matto e disperatissimo dello strumento ma semplicemente musicisti. Se permetterà loro di identificarsi in un solista di un qualsivoglia strumento ad arco o a fiato e desiderare il contatto con quel mondo spesso ancora distantissimo. Allora sì, ben venga tutto questo.
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