“Un ritratto”. Gli scatti del fotografo, raccolti ora in un volume, ripercorrono la vita del pianista tra il 1969 e il 2011
di Giampiero Cane foto © Roberto Masotti
Stai leggendo il giornale in un bar sulla scogliera, di fronte al paesaggio di una città balneare e non credi alle tue orecchie. Hai sentito dire da una voce femminile che sta parlando con uno di quei trappoli che chiamano “telefonino”: “Che bello! Sembra una cartolina”. Per capire cosa significhi è necessario chiedersi cosa sia la realtà. Siamo di fronte a un qualcosa che si vede, ma ciò viene valutato (in questo caso positivamente) in relazione a un qualcosa, la cartolina, che è un’immagine della cosa che vediamo. Ha ragione Susan Sontag, la fotografia “strappa” una fetta della realtà, un particolare dal quale, volendo o cercando potrà essere ricavato un qualcosa di quel tutto che sta comunque davanti ai nostri occhi, ma che qualcuno sa vedere soltanto come restituzione dell’artificiale alla realtà.
Un altro punto, ma interrogativo: la fotografia e la realtà in che rapporto stanno? Cioè, cosa vediamo con la fotografia? Naturalmente quello che nella fotografia c’è, ma se quello che c’è nella fotografia è la stessa cosa che c’è davanti ai nostri occhi, a meno che si sia in cerca di qualche prova o altra roba poliziesca, perché stare a guardare la fotografia. Un uso comune è ripercorrere qualcosa del passato, quando sul volto non c’era una ruga e sedicenne sembravi a te quel qualcosa che non sei diventato. Fosse anche l’opposto la fotografia ti servirebbe solo a metterti a confronto con la tua memoria, non ti darebbe alcun dato e dunque potresti ingannarti a piacere. Ma se guardi con vera curiosità una fotografia, meglio che sia di un qualcosa che conosci, te stesso come in uno specchio che neghi il tempo, o l’altro da te che hai guardato attratto da quel ch’egli è, scoprirai che la fotografia, se ti mostra qualcosa, è quel che non c’è. Se infatti ti mostrasse quel che c’è, cosa la guarderesti a fare? Se cerchi le prove di un qualcosa… eccetera, eccetera. Non parlo per conto di Roberto Masotti, ottima persona che conosco da lustri, anzi ormai da generazioni. Egli è ben cosciente di quel che fa. Ha degli entusiasmi che io magari non condivido, ma non è mai spontaneo, almeno non lo è nel senso di “non mentale, non concettuale”.
La sua più nota collezione di scatti, ci ha messo almeno un decennio a farli (ma se lo vorrà certificherà che c’è voluto un tempo più lungo) l’ha visto girare l’Europa con un tavolino tondo, di quelli da vecchio bar, forse ai tempi del tea e delle poltroncine di vimini. Rifilava quest’oggetto a un musicista di quelli che lo interessavano, niente che avesse a che fare col banale quotidiano, col festival di Sanremo, con quel che passava in televisione, a quei tempi direi la Rai, e chiedeva loro di “rapportarsi”, “condividere”, “corrispondere” con quell’oggetto nel loro agire.
Ne è uscito quel che a mio parere è uno dei più intelligenti fallimenti del desiderio di conoscere cosa sia la fotografia: un fantastico tentativo di decine di musicisti d’alta qualità creativa, alcuni di loro geniali, e non solo in musica, di cavarsela di fronte a un nulla materializzato tra le loro mani dalla volontà di un direttore dello scatto. Loro che a volte avevano fior fiore di solisti in attesa d’un loro gesto. In quelle fotografie vediamo la risposta che ciascuno di loro dà, ma nulla e nessuno ci rivela quale fosse la domanda posta dal tavolino. Non credo che egli mi abbia mostrato tutti i soggetti di quei suoi scatti. Se ne ha ottenuto la complicità sarebbe interessante vedere i pachidermi della classicità di fronte a quel misero oggetto: forse sarebbe come se si fosse potuto vedere Michelangeli, Arturo Benedetto, di fronte a una musica di Satie, o ascoltare Mario Bortolotto impegnato in un confronto musicologico con Alessandro Baricco.
Masotti, assieme a sua moglie Silvia Lelli, per qualche anno fu fotografo ufficiale del teatro d’opera di Milano, La Scala, poi, a un certo punto, furono cacciati (direi che la cosa vada caratterizzata proprio così) con l’arrivo di un nuovo sovrintendente succeduto a Badini, non ricordo se subito, comunque un altro di quelli cui Carlo Maria non seppe dire di no (e dunque finì col non aver caratterizzato un bel nulla). Lì, a La Scala, di elefanti ne passavano più o meno molti, gente che in genere aveva poco di dire, anche se dal podio molto da fare ascoltare. Ma questo non è concettuale, piuttosto sentimentale, al più ermeneutica fenomenologica più o meno vivace, cui poco consegue. In questo suo libro, Keith Jarrett. Un ritratto (Arcana editore, 2015) , Roberto Masotti mette in scena Keith Jarrett, in una “storia basata su fotografie”. La somma dei ritratti, il loro succedersi dovrebbe dar vita a una storia, una biografia tra il sentimentale e il critico. Roberto ama la musica da prima che lo conoscessi, ancora ragazzo che abitava a Bologna, dove io ero giunto da poco. Aveva una certa passione per musicisti non di routine, non mestieranti, artisti dai quali vedeva nascere e formarsi la poesia dei suoni.
Su Jarrett non siamo mai andati d’accordo, ma non è importante. Mi è difficile seguirlo nella sua (di Masotti) verità. Io non lo trovo vero, non sento in lui un Carmelo Bene, ma non pretendo né di aver ragione, né di aver torto. Il suo spaziare non mi piace, ma fossi un fotografo amerei le sue mani che vanno sulla tastiera meno di quanto non mi piacciano quelle disegnate da Chiari che s’impongono a un toy piano. Quello di Jarrett mi sembra un mondo che espande quello che fu di Errol Garner. Posso convenire sul fatto che il pianista di Pittsburgh fosse una specie di naïf, mentre quello di Allentown – altra città della Pennsylvania- è se mai uno strumentista “Usa e getta” (se m’è permesso il gioco). Ma non stiamo qui discutendo di meriti artistici, se non di quelli di Roberto Masotti, e quindi lasciano perdere le divergenze nella valutazione di qualità musicali. Mi piace piuttosto il celarsi del fotografo, il suo operare discretamente nell’ombra e la sua coscienza del fatto che alla fine una serie di scatti, quasi una sequenza, bloccano il gesto e non restituiscono nulla del sonoro, se non per dépense autolesionistica oppure orgiastica di chi ascolta. I quadri di Raffaello o di Klee non ci hanno mai dato la voce dei pittori: purtoppo? Seduto con la chitarra-cello di Paolo Angeli tra le ginocchia, personalmente non produco alcun suono.