Alla Società del Quartetto di Milano prosegue il ciclo di concerti della formazione cremonese dedicati a Mozart
di Luca Chierici
Il mondo della lirica, si sa, contempla al proprio interno categorie di appassionati ascoltatori particolarmente attaccati al mito rappresentato dalle grandi voci del passato. I cosiddetti “vedovi” – famosi i callasiani – soffrono ancora oggi la perdita di grandi figure che hanno condizionato intere generazioni di melomani. Se il fenomeno non sconfina in aspetti maniacali che sono comunque sempre esecrabili, se delle grandi figure del passato si coglie il lato irripetibile e soprattutto l’atteggiamento che ha loro permesso di lasciare il segno nella storia dell’interpretazione, nulla di male. I confronti, vecchi e nuovi, saranno sempre impietosi, perché l’unicità di un fenomeno non può essere mai del tutto replicata, ma altri elementi di interesse possono essere trovati nelle nuove generazioni di artisti che si succedono sul palcoscenico, soprattutto se i giovani evitano di copiare maldestramente l’irraggiungibile e piuttosto si applicano per imporre le proprie qualità personali.
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La vedovanza non è però fenomeno esclusivo del comparto vocale, tant’è che ad esempio sono numerosi oggi i pianisti che tentano di scimmiottare i grandi miti del passato senza approdare a risultati artistici degni di nota o al massimo replicando alcuni record di destrezza digitale che costituiscono solamente un aspetto esteriore dell’interpretazione musicale. Il discorso si complica nel caso di un ensemble considerato come il veicolo elettivo per comporre una musica che riunisce in sé caratteristiche di artigianato sopraffino, con elementi raffinatissimi che concorrono a delineare l’architettura formale dell’insieme e allo stesso tempo con l’utilizzo di un materiale melodico che raggiunge in maniera più diretta la sensibilità dell’ascoltatore.
Stiamo ovviamente parlando del quartetto d’archi e del repertorio centrato soprattutto sui nomi dei classici viennesi e dei romantici tedeschi. Qui la vedovanza di noi ascoltatori di una certa età ha un riferimento ben preciso, quello del Quartetto Italiano, l’ensemble che più di ogni altro ha rappresentato la capacità di raggiungere il traguardo apparentemente irraggiungibile che consiste nel riportare alla pratica esecutiva il messaggio originale dei grandi compositori di quartetti senza che si possa percepire la benché minima deviazione tra l’idea espressa attraverso la partitura e la percezione sonora finale. Vedovi del Quartetto Italiano lo siamo stati un po’ tutti e a poco sono valsi gli interventi di tanti ensemble che hanno portato avanti nel tempo un compito di difficoltà immane. Nel caso dei Quartetti di Mozart, in particolare, il compito è ancora più arduo perché si tratta di ricreare un equilibrio miracoloso tra scienza della disposizione e della condotta delle quattro voci e contenuti musicali che raggiungono delle vertiginose profondità espressive, a volte facendo ricorso a motivi, o frammenti di motivi, di disarmante semplicità.
Il ciclo dell’integrale dei quartetti mozartiani è stato presentato in questi ultimi mesi a Milano, alla Società del Quartetto, dai membri del Quartetto di Cremona – Cristiano Gualco, Paolo Andreoli, Simone Gramaglia, Giovanni Scaglione – artisti ancora giovani che ci hanno ricordato non solo la perfezione tecnico-espressiva dei membri del Quartetto Italiano ma soprattutto lo spirito di dedizione totale che animava il lavoro di Paolo Borciani, Elisa Pegreffi, Piero Farulli e Franco Rossi.
Nella serata dello scorso martedì il compito era ulteriormente gravoso (si trattava di tre quartetti – K 458,464 e 465 – che contengono quanto di meglio possa essere pensato in termini musicali assoluti) ma lo sforzo è stato premiato con una esecuzione che ci ha lasciato in uno stato di serenità e di ammirazione che non provavamo da tempo. Era solamente la musica a trionfare, e ovviamente il nome di Mozart. I quattro solisti officiavano al meglio un rito che dovrebbe essere imposto nelle scuole e nelle sale da concerto di tutto il mondo ad intervalli regolari: ne beneficerebbe l’intera umanità.
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