di Luca Chierici
Cosa rimane di un pianista avanti con gli anni (sono oramai settantadue), che a dire il vero non ha mai goduto di ottima salute e che oggi deve fare i conti con uno stato di evidente prostrazione fisica, frequenti vuoti di memoria e meno frequenti ma udibili défaillances tecniche? Nel caso di Radu Lupu, che si è ripresentato al LAC di Lugano dopo un paio d’anni con un programma interamente dedicato a Schubert, il viaggio per andare ad ascoltarlo nuovamente è più che giustificato, perché di emozioni e di suggestioni il famoso solista è in grado di darne ancora tante, soprattutto se è alle prese con un programma – i Momenti musicali, la Sonata in la minore D 784 e quella in la maggiore D 959 – che avrebbe terrorizzato qualsiasi pianista in carriera.
Un programma difficile, che da un lato ha fatto rimpiangere i migliori raggiungimenti di un tempo non molto lontano nello stesso repertorio, dall’altro ha innescato una meditazione sul significato della musica di un autore così misterioso, elusivo, da un certo punto di vista inquietante, al di là di tutta una retorica ottocentesca (e non solo) che faceva di lui una creatura angelica, serena e creatrice di una musica paradisiaca. Non sono certo le più recenti descrizioni dettagliate di una sessualità disordinata e di un carattere che probabilmente era molto lontano dall’idealizzazione romantica a metterci in condizione di ripensare oggi a Schubert. Piuttosto è la lettura da parte di Lupu, nel suo stato psicofisico attuale, a suggerirci la visione di un discorso schubertiano che corre inesorabilmente verso una destinazione espressiva coincidente con un binario morto. Si ha un bel dire che la “divina lunghezza”, l’escursione in tonalità lontane, le ripetizioni che differiscono di pochi (anche se estremamente significativi) particolari portano direttamente a Bruckner o sfociano in altre eredità più tardive: Schubert disegna spesso un vero e proprio labirinto armonico, una scelta assai personale e si può dire unica che non ha avuto veri e propri seguaci. E se ne è avuta la riprova ieri quando il sommo pianista si è trovato, come in un sortilegio, a imboccare percorsi alternativi che lo hanno costretto a ripetere intere sezioni per riuscire a trovare una via di uscita. Quello che per altri esecutori diventa un problema estremamente penalizzante è però per lui stimolo a ripensare l’intera architettura del pezzo e il tracciato sotterraneo dello stesso in termini descrittivi.
Lupu si è positivamente perso, da buon Wanderer, nell’illustrazione – deve per forza esisterne una! – dei Momenti musicali, a partire dai giochi d’eco del primo numero e nel corso di tutto il ciclo, quasi una anticipazione di immaginari Années de Pèlerinage attraverso luoghi misteriosi e nascosti. La bellezza del timbro, la tavolozza infinita di colori e di gradazioni, il cantabile sempre intenso e struggente, la capacità di “filare” il suono come i grandi cantanti e come facevano i grandissimi pianisti del passato: questi i caratteri principali dell’arte strumentale di Radu Lupu, imprevedibile, giocata su piccole trasgressioni, accenti, rubati che interpretano come nessun altro l’invenzione musicale schubertiana. Nel quinto momento musicale si sono ascoltati echi di Erlkönig, nella Sonata in la minore l’esposizione si è fatta davvero “parlante” , la Sonata in la maggiore ha conosciuto una definizione di livello altissimo, estremamente personale. Per Lupu non esistono partizioni, maniere, nel pur breve arco creativo schubertiano che caratterizza i numeri presentati in programma (cinque anni, tra il 1823 e il 1828). Il peso specifico di questo materiale tanto infuocato quanto apparentemente vago e innocuo è sempre lo stesso, e lo si è verificato anche al termine della serata, quando il concertista, evidentemente stremato, ha suonato come fuori programma l’Improvviso in sol bemolle maggiore. Lì era ancora più evidente il contrasto, la coesistenza di tanti elementi così diversi tra loro, dal cantabile più lancinante alla liquefazione assoluta del gioco di accompagnamento. Pubblico non straripante, nella acusticamente perfetta sala del LAC, ma commosso alle lacrime.