di Luca Chierici foto © Cecopato
A poco più di un anno di distanza dall’ultimo recital milanese per le “Serate Musicali”, Alexander Lonquich è riapparso davanti al pubblico con un programma come al solito pensato attraverso considerazioni che trascendono un significato puramente pianistico, ma che si rifanno a una profonda visione dei lati più intimi e segreti della musica. Nella prima parte della serata, che nella sua determinazione novecentesca indirizzata a sottolineare le problematiche più “scomode” e tutt’altro che svagate del significato dell’arte ci ha ricordato certe proposte di Sviatoslav Richter, che non scendevano ad alcun tipo di compromesso, l’artista ha presentato dapprima il denso ciclo Nella nebbia di Janacek (1914). Vi sono dei momenti, nell’esperienza di ascolto di tutti noi, in cui un lavoro viene rivelato attraverso una lettura di particolare chiarezza e sensibilità che ci porta ad afferrarne finalmente i significati più veri. Questa è l’impressione avuta l’altra sera con lo Janacek di Lonquich, sviscerato nel profondo dal grande artista che aveva questo capolavoro in repertorio da molti anni. Estendendo poi una tematica già sfiorata lo scorso anno durante un bis di Gideon Klein, musicista morto a soli 26 anni nel campo di concentramento di Auschwitz, Lonquich si è immerso con commossa lucidità nella lunga e difficile seconda sonata di Karl Amadeus Hartmann, scritta nell’aprile del 1945 sotto l’impressione dell’arrivo alla stazione di Monaco di Baviera del primo treno che riportava alla luce i sopravvissuti del campo di Dachau. Lo strazio dell’avvenimento, condensato nella didascalia posta a capo dello spartito (“Infinita era quella fiumana, infinita la miseria, infinito il dolore”), si riversa nelle note e nella costruzione di un’opera concepita in quattro movimenti (Lonquich ha eseguito la prima versione, comprendente uno Scherzo e una prima stesura del finale) dove si ascolta un pianismo tagliente, per nulla supplichevole ma colmo di atteggiamenti di forte denuncia.
Hartmann – Sonata n.2 (Finale – Allegro risoluto, prima versione) – Lonquich A. – 040618 – Serate Musicali
Nella seconda parte del programma il pianista è ritornato all’amore di tutta una vita con la Sonata in la maggiore D.959 di Schubert (lo scorso anno era stata la volta di quella in do minore D.958). Né in questo caso, né in via del tutto generale, Schubert ha per Lonquich un significato consolatorio, ma è un territorio idealmente senza confini da interrogare attraverso una sensibilità artistica davvero speciale e in sintonia con la poetica del grande musicista. Lonquich ha conquistato oggi, attraverso un lavoro fondato su un terreno fertilissimo, la capacità di vibrare attraverso il fraseggio schubertiano con una immedesimazione tale da lasciarci a volte sgomenti. Un fraseggio assai mobile, che non indugia a un legato di tradizione, e la sempre cangiante definizione del tempo possono essere utilizzati solamente da un artista che è perfettamente convinto di quello che fa e che ci costringe spesso a ripensare a molte proposte, da parte di altri famosi colleghi, che pensavamo essere definitive.
Schubert – Sonata LA D.959 (finale) – Lonquich A. – 040618 – Serate Musicali
Con l’elusiva Melodia ungherese, versione per pianoforte solo di una sezione del più sviluppato Rondò all’ongarese per pianoforte a quattro mani, Lonquich aveva aperto la serata, che si è conclusa con la ripetizione dello stesso pezzo come bis, tra gli applausi e la commozione del purtroppo non folto pubblico in sala.