di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
Un programma davvero ben impaginato, quello predisposto da Riccardo Muti, per la prima volta al Lingotto di Torino, alla guida della ‘sua’ creatura, l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini: in occasione del concerto di chiusura della stagione 2017-18 di Lingotto Musica, la sera dello scorso 30 maggio 2018. E dunque una prima parte dal taglio abbastanza inconsueto, quasi per intero dedicata agli operisti italiani di fine Ottocento primo Novecento Catalani, Mascagni, Leoncavallo, Puccini e Giordano, con una sequenza di Intermezzi sinfonici in buona parte di grande notorietà e per lo più di indicibile appeal accomunati da un medesimo milieu, un comune sentire: fatta salva beninteso l’autonomia linguistica e stilistica dei singoli autori. Sicché l’inserzione, in apparenza anomala, del martucciano Notturno op. 70 n. 1 che di fatto partecipa di quella medesima temperie, non solo non sfigurava affatto, bensì risultava del tutto coerente.
Apertura nel segno del raffinato ed estetizzante Alfredo Catalani del quale si è ascoltata Contemplazione, pagina sinfonica datata 1878 – una sorpresa per i più, ovvero una gradevole quanto inattesa rivelazione – contrassegnata da un melodismo caldo, effusivo e carezzevole come una brezza, non priva di un suo certo pathos, allusivo a certo decadentismo: Muti, ottimamente assecondato dall’Orchestra Cherubini, ne ha messo in luce l’eleganza sottile e il fascino innegabile, ancorché un poco frale. Poi ecco l’intensa cantabilità dell’assai noto Intermezzo mascagnano (da Cavalleria rusticana) che gli archi della Cherubini, dalla pasta brunita e densa, hanno restituito in tutta la sua immortale fragranza. Quanta eleganza e quanta raffinatezza melodica (come pure timbrica) si è sprigionata poi dal non meno intenso Intermezzo dai pressoché coevi Pagliacci di Leoncavallo: di cui Muti ha ben posto in evidenza l’esordio tragico e affocato, come pure quegli apici dinamici che attingono al clima verista in cui l’opera dilaga. Nel contempo è parso a dir poco ammirevole il lavoro di cesello sui singoli dettagli, come pure è emersa al meglio la delicatezza incredibile di certi tratti informati ad un lirismo che rappresenta il contraltare spirituale dei tratti più carnali del cosiddetto ‘Verismo’, per l’appunto.
Il vero e proprio clou con il sublime Intermezzo dalla pucciniana Manon Lescaut: raramente è accaduto di ascoltarlo in tutto il suo nitore e la sua soavità melodico-timbrica. Non solo: Muti vi infonde una flessuosità e una souplesse davvero uniche, giocando con impercettibili ‘incalzando’ e dosando con millimetrica acribia le dinamiche, dall’esordio cameristico, giù giù sino alle ultime misure, sì da renderne irresistibile il vero e proprio climax destinato a culminare nel parossismo tragico ed emotivo che la pagina inevitabilmente innesca. Una vera e propria lezione di stile, in grado di far stagliare la superiorità di Puccini quanto a qualità dell’orchestrazione nel panorama dei suoi pur eccellenti e coetanei colleghi. Non meno sorprendente la venustà melodica dell’Intermezzo dalla Fedora di Umberto Giordano, pagina che rivela a chiare lettere l’analoga matrice stilistico espressiva rispetto all’antecedente Intermezzo mascagnano del quale pare una sorta di pur valida e personale rivisitazione se non addirittura un vero e proprio calco stilistico. Quanto al già citato Notturno di Giuseppe Martucci, in bilico tra elegia e appassionata sensualità, partecipa tra «slanci ed abbandoni» – lo si anticipava più sopra – di quel medesimo clima espressivo e culturale cui appartengono gli altri autori in programma. Suo pregio innegabile, conciliare un certo gusto per la wagneriana melodia infinita e per il trascolorare delle armonie, tipicamente tardo-romantico, con un melodismo di matrice squisitamente italiana: che seduce e talora stordisce come quei profumi troppo intensi e inebrianti.
Tutta nel segno di Verdi la seconda parte della serata, dedicata ai Ballabili dall’Atto III dei Vespri Siciliani (o più propriamente le Vêpres Siciliennes) ovvero le Quattro Stagioni. Muti ha dedicato la massima cura alla partitura, lavorando di bulino e offrendo alle prime parti una ghiotta opportunità di primeggiare e porsi in mostra. Se non mancano passaggi di indubbia immediatezza, brillante e scherzosa arguzia come pure immagini timbriche che denotano da parte di Verdi innegabile cultura e conoscenza approfondita dell’universo sinfonico internazionale, per contro una certa ripetitività di ritmi e formule varie finisce per ingenerare una certa qual saturazione in una pagina che – a onor del vero – è anche la più lunga composizione sinfonica verdiana: inserita in partitura secondo le consuetudini richieste dall’opera francese. Muti ha saputo ben cogliere una certa qual dose di ironia insita nei quattro bozzetti, volti a delineare un vero e proprio spettacolo entro lo spettacolo. E allora ecco il descrittivismo lepido dell’Inverno, poi la soave fragranza della Primavera, quindi la spossata calura dell’Estate e, da ultimo, l’eccitazione sfavillante dell’Autunno. Gran bella prova per l’Orchestra Cherubini e davvero ammirevole l’incessante verve infusa da Muti, abile nel guidare i giovani interpreti attraverso gli insidiosi raccordi ritmici e – più ancora – attento a mitigare (absit iniuria verbis) quel quid di bandistico, nazional-popolare irrimediabilmente insito nei Ballabili medesimi.
Ben altro spessore possiede la superba Sinfonia dei Vespri siciliani dagli irresistibili scuotimenti tellurici, eseguita in chiusura. Indicibile la vis propulsiva e davvero vasto il range dinamico che Muti vi immette, restituendo alla pagina, conclusa da un trascinante Prestissimo, tutto il suo appeal. Vero e proprio trionfo per i giovani della Cherubini, applauditissimi in toto e più ancora quanto a ottime prime parti. Niente bis, ma una breve e pur intensa prolusione, a braccio, fuori programma, con la quale Muti ha sottolineato la necessità di dar spazio all’Italia vera, quella dei valori culturali troppo spesso mortificati. E la musica, si sa, può essere un ottimo veicolo di cultura nel mondo: quasi il simbolo di un’Italia che tuttora custodisce alcuni tra i più preziosi scrigni quanto a Bellezza ed Assoluto nell’arte. E il melodramma, da Verdi a Puccini ai veristi, è tra questi simboli, universali e inattaccabili, ad onta di mode effimere, passeggere.