di Luca Chierici foto © Brescia & Amisano
La prima occasione di ascoltare a Milano, per di più alla Scala, Fierrabras, capolavoro operistico di Schubert, avrebbe potuto risolversi a centonovantacinque anni dalla sua creazione in un trionfo che per molti aspetti è doveroso nei confronti di un lavoro tanto sfortunato quanto pieno di bellezze. Scritto nel 1823, mai rappresentato vivente l’autore, recuperato a fatica nel 1897, eseguito sporadicamente in versioni abbreviate, accolto entusiasticamente attraverso il rilancio fortissimo di Claudio Abbado alla fine degli anni ’80 Fierrabras è giunto quindi fino a noi nell’allestimento di Salisburgo di pochi anni fa. La prima recita è stata accolta dal pubblico milanese con un successo franco, aperto, ma fin troppo accondiscendente anche quando più di un aspetto della produzione lasciava a desiderare, o perlomeno non portava sul campo ad ammirare incondizionatamente una partitura che si poggia su un libretto macchinoso e che necessita di una bacchetta formidabile, impugnata da un direttore immerso del tutto nell’universo schubertiano, per reggere le quasi quattro ore dello spettacolo, pur diviso da due intervalli che portano la durata effettiva a due ore e tre quarti.
In Fierrabras si ascolta tutto ciò che lo schubertiano conosce dalla sua frequentazione con il mondo dei Lieder, ma anche della musica sinfonica, pianistica, cameristica del grande protagonista del Classicismo viennese. Vi è in Fierrabras un omaggio innegabile verso l’universo mozartiano, soprattutto quello che gravita sulla Zauberflöte, una influenza irresistibile che si coglie dappertutto e che domina sia i pezzi d’assieme con la presenza del coro che duetti, terzetti e in genere ensemble nei quali si agitano affetti, incomprensioni, lacerazioni che affiorano abbondantemente nel corso dell’opera. E poi la mano di Schubert si riconosce negli scarti armonici insoliti, nel vagare melodico che sembra non avere mai soste, nell’infallibile intuito narrativo che segue gli spesso complicati dettagli del soggetto. Sicuramente si ascoltano in Fierrabras echi delle cosiddette pièces à sauvetage che si infiltrano in ogni dove nella produzione degli ultimi vent’anni, dal Cherubini di Lodoiska al Beethoven del Fidelio e ogni tanto si ascoltano dei richiami che per un momento ci trasportano in contesti molto differenti da quello originale (si pensi ad esempio alle fanfare di trombe che paiono prese di peso dal Fidelio, anche se qui vengono utilizzate come richiamo militare in situazioni drammaticamente assai differenti, sia che il “trionfo” attenga ai paladini di Carlo Magno che ai guerrieri mori.) E tra le tante meraviglie basterà citare in aggiunta le sezioni caratterizzate dai dialoghi commentati in musica – il cosiddetto Melodram – un genere che verrà coltivato assai spesso nel corso dell’Ottocento. Oppure la comparsa di luoghi tanto cari alla narrativa musicale del secolo, a partire dal “coro dell’arcolaio” che apre l’opera. Però qui si riaffaccia il problema della famosa “divina lunghezza” schubertiana, non certo per una questione formale di abbondanza di sviluppi, di divagazioni tematiche che d’altronde non avrebbe senso tirare in causa in un contesto operistico, bensì per una quasi eccessiva abbondanza di idee che sembra diretta a coprire la macchinosità e la prolissità del libretto più che a edificare un commento musicale perfetto e in se stesso compiuto come ad esempio avviene nelle grandi opere mozartiane.
Se il lungo atto primo si svolge su un piano di affetti puramente personali, la vicenda assume connotati più ampi nei due atti successivi, e lì si ritrovano molte delle meraviglie che connotano questo Fierrabras. Senza andare a scomodare l’esempio abbadiano, che rimane un unicum, ci si sarebbe innanzitutto potuti aspettare una maggiore veemenza interpretativa da parte di un direttore che con Abbado si può dire sia cresciuto, abbia percorso come si suole dire un tratto importante di strada. Ma spesso le emozioni sono controllate da Daniel Harding in una maniera che, seguendo un luogo comune stantio ma che ha un fondo di verità, impedisce al direttore di gettarsi a capofitto in una situazione drammaturgica e musicale che non ammette mezze misure. Tanto che l’ascolto dell’opera, invece di farsi partecipe e sempre più emozionante in seguito al primo atto – erroneamente indicato da tutti come il meno emozionante dei tre – si è purtroppo indirizzato a tratti verso una pur apprezzabile routine. Sarà stata colpa anche della regia convenzionale di Peter Stein, di un allestimento scenico (dovuto a Ferdinand Wögerbauer) che faceva l’occhiolino alle antiche scene dipinte, della performance di almeno un cantante (Tomasz Konieczny come Re Carlo) timbricamente assai discutibile, ma lo spettacolo ha certamente mancato di centrare un bersaglio che era pur doveroso non equivocare vista la specificità dell’occasione. Il termometro è stato mantenuto comunque a un livello più che alto grazie alla presenza di alcune voci che non si sono risparmiate nei ruoli chiave del titolo. Parliamo sicuramente di Dorothea Röschmann, passionale Florinda che è stata davvero irresistibile anche nella sua “aria di furore”, di Anett Fritsch, amante più delicata e in fondo coinvolta in un possibile gioco a tre più grande di lei, di Markus Werba, virile Orlando che prende in mano la situazione e di Peter Sonn, che ha sostenuto egregiamente il ruolo di Eginhard. Fierrabras non sempre all’altezza della situazione è parso Bernard Richter, a volte in difficoltà in una tessitura spesso impervia. Magnifico l’apporto fondamentale del Coro diretto al solito da Bruno Casoni.
Questo Singspiel schubertiano a lungo negletto rivede la luce grazie a una interessante edizione della scala diretta da Daniel Harding con la regia di Peter Stein, la prova che per una bella messa in scena
non sono necessari quegli orrori creativi che infestano sempre più i teatri d’opera, a causa di registi che essendo privi di capacità sostituiscono la qualità con la provocazione che nella maggioranza dei casi è solo cattivo gusto. Una scenografia BW che riflette giustamente la visione manichea del libretto con i buoni (bianchi) paladini e i cattivi (neri) mori. L’opera, dal punto di vista del libretto è quindi quella che è: mielosa come solo una favola può essere, con ovvio lieto fine e farcita di assurdità. Ma tant’è: cosa dobbiamo dire di molti libretti (la maggioranza) del melodramma italiano (e non solo) in cui si celebra il festival dell’assurdità? Wagner e Da Ponte sono mosche rare in un panorama per lo più sconsolante. Purtroppo anche dal punto di vista musicale siamo ben lontani da un capolavoro. Non mancano sezioni interessanti ma tutta l’opera risente della caratteristica schubertiana di rimandare costantemente un punto fermo. Mentre questo è accettabile, comprensibile e sovente un “marchio di fabbrica” del compositore viennese, nell’opera si trasforma in una ripetitività che sa spesso di mancanza di ispirazione. L’opera risulta pertanto ingiustificatamente prolissa e priva di spunti di rilievo. In somma un’“aurea mediocritas” che spesso passa dal metallo nobile a quello meno nobile. A un’opera come questa suggerirei di riposare in pace: non tutte le operazioni di archeologia musicale permettono di scoprire tesori nascosti. Daniel Harding è un grande direttore e ce la mette tutta per ravvivare uno spartito non esaltante. Quanto ai cantanti sono tutti di buon livello a parte la Emma di Anett Fritsch non all’altezza della parte. Modestissimo successo di un pubblico rarefatto.