di Santi Calabrò foto © Nanda Vizzini
La proposta di un programma che allinei i due monumentali testamenti pianistici di Beethoven e di Schubert – nella prima parte le 33 Variazioni su un tema di Diabelli, nella seconda la Sonata in Si bem. magg. D 960 – può declinarsi in tante sfaccettature dell’interpretazione, ma in via preliminare si riconduce a un bivio tra similarità e differenze. Raramente, infatti, i due compositori appaiono così diversi: eppure, entrambe le opere, quasi coeve, possono soddisfare sia al requisito della conclusione di un’epoca, declinandosi più verso la dissoluzione che verso la summa, sia ad una prefigurazione visionaria di tendenze successive.
Nel concerto che Alexander Lonquich ha tenuto a Messina inaugurando la stagione della Filarmonica Laudamo, la cifra di una visione unitaria dell’interpretazione, dopo l’esecuzione delle Variazioni beethoveniane, si percepisce “a pelle” già in apertura della seconda parte del concerto, si rafforza nel corso dell’esecuzione e svela in modo inequivocabile e persino esagerato la sua natura all’inizio del terzo movimento della Sonata di Schubert. Ma la via della comprensione non sempre è lastricata di felicità: il rapporto che, nella visione attuale di Lonquich, accomuna l’ultimo Beethoven e l’ultimo Schubert, si rende trasparente nel momento meno riuscito del concerto! Lo Scherzo schubertiano eseguito da Lonquich è infatti tutt’altro che memorabile: il flusso dell’accompagnamento della sinistra non si limita a costituire uno sfondo per le evidenze accentuative e articolatorie della melodia principale, ma si insuperbisce al punto da estendere una scorrevolezza pressoché indistinta all’insieme. In sé il risultato lascia perplessi, tuttavia si capisce benissimo da qui la ratio dell’intera operazione di Lonquich per come si è dipanata sin dalle prime note (beethoveniane) del concerto. La continua tendenza dell’esecuzione verso la spiritualizzazione e la rarefazione può apparire in superficie come una mera disincarnazione del suono, ma a ben guardare sulla scena della percezione appare un continuo smussamento dell’articolazione classica – in tutti i suoi parametri, che Lonquich per lo più mostra di tener presenti anche quando li annienta –. Passando al reame dei significati, ciò si può far corrispondere a uno svuotamento di vita, a una disillusione esistenziale sia individuale che storica, nel caso di Beethoven anche a un compiuto ripiegamento dell’arte dalla missione universale al gioco linguistico: in sintesi – se vogliamo usare un termine preciso, filosofico (o esistenziale) prima che estetico – al nichilismo. Diverso è però il risultato quando il nichilismo appare come un risultato o addirittura (orrore!) come un “fondamento” – nello Scherzo citato o in diversi passaggi del primo movimento della stessa Sonata –, rispetto a quando l’esecuzione di Lonquich coglie in flagrante dei processi di annientamento o persino un percorso di andata e ritorno, che parte dall’oscurità, torna al sogno della vita, quand’anche dolorosa, e ripiomba nelle tenebre: è il caso dell’Andantino sostenuto della Sonata di Schubert, dove la congenialità ben nota tra il pianismo di Lonquich e le trame sonore schubertiane si libera eufonicamente nella parte centrale.
Il Klavierstücke in mi bem. min. D. 946 n. 1, offerto come unico e corposo bis, gode di una buona interazione tra quella stessa congenialità e la tendenza interpretativa di questa fase. Ed è da rimarcare anche che il quarto movimento della Sonata – dove le esibizioni di nichilismo non mancano – non rechi quel senso di caduta di qualità, rispetto ai primi tre movimenti, che è così difficile da evitare in questa Sonata. Rendere conto dell’esecuzione beethoveniana appare per forza di cose operazione più complessa: l’individuazione di un qualsiasi ethos definito non è per definizione connaturata all’astrazione delle Diabelli-Variationen, e quindi la scelta (a)sintattica fondamentale dell’esecuzione di Lonquich – sempre nel senso di trasfigurare ogni articolazione – restituisce non tanto una dialettica tra vita e sua negazione, come in Schubert, quanto un gioco mobile tra metafisica e nichilismo; inoltre, l’interesse di Beethoven per il tema di Diabelli, inizialmente giudicato come corrivo, si accese proprio nel momento in cui ne percepì la potenza elementare e primigenia in termini di contrapposizione di armonie e accenti. A partire da ciò, il poderoso edificio di variazioni sembra ostentare più che nascondere le sue nervature: ma Lonquich, andando in direzione specularmente contraria, insinua con sulfurea malizia che quelle nervature siano troppo esagerate per essere “vere”. Il suo pianismo non è tuttavia congeniale all’agilità drammatica (in area beethoveniana, Lonquich è più pianista da IV Concerto che da “Imperatore”), mentre alcune variazioni richiedono una certa incisività, e quindi non si capisce sempre quanto pesino le caratteristiche della tecnica su scelte che in qualche momento fanno slittare il quadro verso una tentazione di manierismo o verso un esito sin troppo rarefatto.
Anche qui, a nostro parere, i momenti più riusciti sono quelli in cui i processi di negazione si offrono in uno stadio più visibile e meno avanzato. In definitiva, un concerto ad alta temperatura intellettuale: eppure è stato salutato da calorosi applausi. Di questi tempi – dove le star del pianoforte tendono a esaltare piuttosto valori sensuali, di sé stessi e della musica – è un gran conforto.