di Luca Chierici foto © Teatro alla Scala
Strana vicenda, quella che ruota attorno alla Finta giardiniera del diciannovenne Wolfgang Amadeus Mozart: rappresentata con scarso successo a Monaco il 13 Gennaio 1775, replicata solamente un paio di volte, l’opera venne nel 1780 tradotta in lingua tedesca e manipolata nella forma di un Singspiel – cioè con dialoghi parlati – e circolò da allora quasi solamente in Germania anche a causa del fatto che nel frattempo si era perso l’autografo dell’atto primo. Ritrovato quest’ultimo solamente in tempi recenti, questo lavoro fondamentale per la conoscenza dello sviluppo dell’arte mozartiana fu recuperato alle stampe in revisione critica nel 1978 ed è rientrato da quel momento a far parte del repertorio, pur attraverso proposte numericamente limitate. La recente produzione curata dal Festival di Glyndebourne è quindi approdata alla Scala, che ha riproposto il titolo dopo una precedente edizione che risale al 1970-71, condotta partendo da una ricostruzione che attingeva al libretto originale e alle parti derivanti dalla tradizione esecutiva germanica.
Numerosi sono dunque gli argomenti di carattere musicologico che è opportuno conoscere prima di porsi all’ascolto dell’opera, dalla sua parentela più che ovvia con l’omonimo lavoro di Pasquale Anfossi (di poco precedente e conosciuto da Mozart anche perché eseguito con grande successo ovunque in Europa) al legame con la tradizione dell’opera buffa italiana, a propria volta generata dagli esempi della Commedia dell’arte, alla non certa paternità del libretto. Ma ciò che più interessa l’ascoltatore mozartiano al giorno d’oggi è l’esame di un momento critico nell’evoluzione stilistica del salisburghese e l’insieme delle numerosissime anticipazioni che prefigurano i lavori massimi degli anni successivi, soprattutto quelli che appartengono alla trilogia dapontiana.
Lo spettacolo riproposto alla Scala trovava i propri punti di forza nella concertazione e direzione di Diego Fasolis (che utilizzava il sottoinsieme dell’orchestra scaligera dedicata agli strumenti d’epoca) e alla presenza di una discreta compagnia di canto. Non particolarmente interessante, troppo arzigogolata, era invece la regìa curata da Frederic Wake-Walker e sostenuta da scene convenzionali fisse firmate da Antony McDonald (la sala del castello di Nymphenburg, presso Monaco) e dalle luci più indovinate (sfruttando molto anche un “effetto silhouette” ) di Lucy Carter. Wake-Walker ha a nostro parere voluto strafare nel concentrarsi sui cambiamenti psicologici che avvengono alla fine del secondo atto, nella scena della follia che mette a nudo gli animi dei due vecchi amanti Belfiore e Violante, o nel sovrapporre a i vari personaggi movimenti semi-automatici in chiave parodistica: preziosismi che non aiutano il pubblico a districarsi nel labirinto teatrale e musicale di questo difficile lavoro mozartiano.
Diego Fasolis ha avuto il merito di tirare le fila di una partitura di cospicua lunghezza (tre ore di musica, ma vi sono stati anche dei tagli) e di difficile definizione proprio per quel carattere ancora troppo legato al genere buffo e allo stesso tempo iniettato di una vena drammatica. Un mix di atteggiamenti che troverà una identità ben precisa di lì a pochi anni nel genere del dramma giocoso e che qui è appena abbozzato, tanto che, per gli studiosi mozartiani d.o.c. di una volta come l’Einstein, il carattere della Finta giardiniera era eminentemente “galante” . Le straordinarie capacità assimilatrici di Mozart, qui giunte a un livello di virtuosismo insuperabile, la sua incredibile comprensione di tutto ciò che musicalmente e teatralmente lo circondava e precedeva, creano un insieme di difficilissima gestione da parte del direttore, che si trova costretto a giocare su diversi piani emozionali e a richiedere ai cantanti una grande varietà di prestazioni e impostazioni stilistiche. La prima esecuzione scaligera è stata resa difficoltosa a causa della défaillance del soprano Hanna-Elisabeth Müller, che ha confermato la propria presenza in scena ma che è stata vocalmente sostituita dalla piuttosto timida Julie Martin du Theil, protagonista a partire dalla seconda recita cui ci riferiamo in questa recensione. La Du Theil non è stata applaudita alla fine della cavatina «Geme la tortorella» che doveva essere per lei l’occasione per sfoggiare al meglio le proprie doti interpretative e ha ricevuto un consenso generale solamente al termine della recita. La Du Theil è apparsa davvero, almeno nella prima parte, più corretta che veramente immersa nel proprio ruolo. Tra gli altri interpreti degni di nota si è apprezzata Lucia Cirillo, volitivamente proiettata sul difficile carattere di un Cavaliere che non ha ancora deciso quale sia il vero oggetto del proprio amore oltre che vocalmente impegnata in un ruolo inizialmente pensato per un castrato. L’Arminda del soprano Anett Fritsch, si fa ascoltare attraverso una voce brillante ma a volte piuttosto acidula, e dà fiato a un carattere a volte bizzoso come nell’aria “Si promette facilmente” che sembra un preludio a ciò che accadrà in seguito con la Rosina di Rossini («Ma se mi toccano» !). Il Belfiore di Bernard Richter è stato applaudito giustamente come affettuoso tenore a proprio agio in un ruolo “di grazia” (quasi don Ottavio) e alla fine teneramente e di nuovo innamorato della sua Violante/Sandrina. Serpetta vivacissima e intrigante è stata Giulia Semenzato, mentre il bravo Mattia Olivieri ha dato vita al personaggio apparentemente innocuo di Nardo, che si rivela pienamente solo poco prima del finale terzo nell’aria “A forza di martelli”, decisamente orientata al futuro “uomini incauti e sciocchi” nelle Nozze di Figaro. Krešimir Špicer ha avuto qualche difficoltà iniziale di rodaggio come Don Anchise ma si è sufficientemente riscattato nella seconda parte dell’opera. Il suo è un ruolo non facile e tutt’altro che confinato a quello di maschera della commedia dell’arte, nonostante già l’Einstein sottolineasse la parentela di tale carattere con quello di Pantalone.
Tutti si sono prodigati a dar vita agli apprezzabilissimi concertati (il quintetto iniziale dove Mozart definisce magistralmente i caratteri dei primi personaggi in scena, antecedenti all’arrivo della coppia di promessi sposi, il settimino finale dove pare di ascoltare una prova di «Questo è il fin di chi fa mal» del Don Giovanni, il sestetto che sembra anticipare la scena notturna delle Nozze di Figaro. Si è trattato in ogni caso di una serata di non facile comprensione, soprattutto da parte di chi non avesse bene in mente lo sviluppo della drammaturgia mozartiana: ma alla fine lo sforzo di concentrazione richiesto al pubblico ha sortito un effetto estremamente positivo.