di Giampiero Cane foto © Simone Fratini
Chi cercasse il salisburghese nel Don Giovanni di Mozart secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio non lo troverebbe, ma chi ignorando l’originale del titolo di riferimento assistesse a una messa in scena a opera dell’insieme intitolato a piazza Vittorio, a Roma tra Termini e il Colosseo, non capirebbe quasi niente della vicenda narrata da molteplici autori e, per Mozart, da Lorenzo Da Ponte. Così com’è questa pièce di teatro musicale è dunque una cosa ben strana, giacché non è nemmeno una parodia e neppure fa i baffi alla Gioconda e nemmeno attualizza un testo che paia saper di vecchio a chi l’ha preso in mano, tuttavia esiste come filiazione, anche se involontaria, di uno dei capolavori irrinunciabili del teatro d’opera del tardo Settecento.
Aggiungiamo che la parte del protagonista è sostenuta da una attrice, Pietra Magoni, che in pratica non ci sono costumi, se non consideriamo tali delle mise che direi da sera, un po’ datate. Il palcoscenico non ha una vera e propria scena, ma è occupato da un quintetto con pianoforte, un’altra tastiera, chitarra, contrabbasso e batteria, un ensemble cui si unisce occasionalmente la tromba suonata da Omar Lopez Valle, che in scena si finge Leporello. Tutti gli strumentisti, cinque, e gli attori, sette, cantano o da soli o nell’insieme; Anna, Elvira e Zerlina ballano con abitucci di voile azzurrino da serata delle debuttanti, oggi più o meno da dodicenni, ma non sviluppano naturalmente nessun balletto, mentre amplificano ai loro fini movenze di mimi. Lo spettacolo dura ottanta minuti e quasi non fa a tempo a irritare quanti tra gli spettatori sono capitati lì convinti che si sarebbe trattato di un allestimento, magari un po’ tagliato, un po’ manomesso, ma riconducibile a Mozart. Non lo è.
Diciamo, invece, che decomposta la sequenza delle scene del testo mozartiano (e di Da Ponte) quel che viene utilizzato del decollage per questo riassemblaggio nemmeno segue l’ordine che è nell’originale del 1787, e aggiungiamo che non riusciamo a capire perché sia stata sconvolta anche la successione degli eventi. Ma forse è perché conosciamo il Don Giovanni d’un tempo che ci pare perfetto.
Ma questo è un’altra cosa. Un po’ senza fondamento, anche se di alcuni aspetti si può facilmente intuire un retroterra psicoanalitico, senza che ne emerga una spiegazione.
In qualche riga introduttiva firmata da Mario Tronco, collaboratore alla regìa di Andrea Renzi e alle elaborazioni musicali, viene ricordato che Fedele d’Amico sostenne perché Don Giovanne ingannasse le donne non tanto per il piacere di conquistale, ma che si prodigasse a conquistarle per il piacere d’ingannarle. Ciò potrebbe confermare la tradizione del teatro di prosa per cui il personaggio è un burlador leggendario. Personalmente crediamo, invece, che egli sia un artista che, come ritenne Carmelo Bene, non sa fare tutto, ma solo quel che deve fare, nel caso sedurre. Egli sarebbe dunque non più di un lavoratore, anche se geniale, un Tantalo che soffre l’eterno ripetersi di una vicenda, con irrilevanti minime variazioni, come un ballerino classico obbligato a continui duetti d’amore danzati, tutti con gli stessi gesti per soddisfare le stesse attese, sempre portandosi all’altezza del viso le parti intime di una o di un’altra ballerina.
Resta il fatto che l’orchestra di piazza Vittorio è in grado di integrare tra di loro musiche di provenienza diversa, risponde positivamente alla funzione di pacificazione Bareboim e Said attribuiscono alla musica. Il cocktail, o forse la più popolare misciua non preoccupa. Le tre donne e la quarta, en travesti, cioè Simona Boo, Herssi Matmuja, Mama Marjas e Petra Magoni (Don Giovanni) sono piene di comunicativa entusiasmante e di acuti feroci, Leporello , Omar Lopez Valle è un Leporello che ne ha visto di tutti i colori, il commendatore la voce che gli vien data dall’insieme in coro, mentre la sua immagine è un’infelice insieme di ritagli.