di Luca Chierici foto © Brescia/Amisano
Una scelta impegnativa, per se stesso, per l’orchestra e per il pubblico è stata quella che ha spinto il giovane Lorenzo Viotti (28 anni) a presentare alla Scala, per il suo concerto di debutto milanese, quattro pagine sinfoniche di estremo impegno. Figlio d’arte e degno continuatore dell’impegno artistico del padre Marcello, grande direttore scomparso nel 2005 a poco più di cinquant’anni, Lorenzo sta affermandosi come uno dei giovani musicisti più personali e di talento dei nostri giorni, per il quale non è certo azzardato prevedere uno sviluppo di carriera di grande livello. Se il Siegfried-Idyll di Wagner (1870) e il Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy (1894) potevano entrare a far parte di un probabile vissuto di ascolto da parte del pubblico abituato al repertorio sinfonico, non così si poteva dire per i due altri numeri in programma, L’isola dei morti di Rachmaninoff, poema sinfonico op.29 del 1908, e Le poème de l’extase (noto anche come Quarta sinfonia, 1905-1907) di Skrjabin. Si trattava in tutti i casi di un programma non facile, che poco concedeva a una ricezione poco problematica da parte dell’ascoltatore, se non altro per le caratteristiche implicite dei due titoli più corposi in programma, che vagavano tra le lugubri atmosfere evocate dal famoso quadro di Böcklin e le esaltate visioni tipiche dell’ultima fase creativa di Skrjabin. Un programma che tra le altre cose tirava in causa una caratteristica comune ai quattro numeri, ossia la loro dipendenza da influenze esterne: uno specifico testo letterario nel caso di Debussy (un’Egloga di Mallarmé) e di Skrjabin (un poema che avrebbe dovuto accompagnare la partitura a stampa) , la già citata sorgente pittorica per Rachmaninoff, l’elusiva mescolanza tra alcuni motivi del Ring, le tracce di un quartetto per archi e altre melodie popolari nel caso wagneriano.
Alla impaginazione del programma si accompagnava una specifica scelta tecnica da parte di Viotti: direzione senza bacchetta, con gesti eleganti di accompagnamento delle mani per i lavori più brevi, e ricorso al tipico utensile direttoriale nel caso delle due partiture più complesse. L’opzione era più che comprensibile, anche se insolita, soprattutto nel caso di Wagner. Come è noto – la scena è magnificamente illustrata da Visconti nel suo Ludwig – l’organico strumentale originario utilizzato nel famoso Idillio, fatto eseguire nel 1870 nella villa di Tribschen come regalo di Natale per la moglie Cosima e per il figlio appena nato della coppia, era di soli 13 strumenti. Orbene, l’Idillio può essere eseguito in questa versione cameristica, che inizia con le sole quattro voci degli archi, ma anche affidato a un organico più ampio, come è accaduto l’altra sera. Non si è capito fino in fondo, però, come mai Viotti abbia presentato l’Idillio con sonorità molto trattenute e con gesto confidenziale pur eseguendo la partitura attraverso la grande orchestra, quasi egli volesse dare una prova di estrema perizia tecnica facendo suonare un nutrito complesso sinfonico come se fosse in realtà un ensemble da camera. Nel caso di Debussy non esiste una scelta alternativa tra una ipotetica versione cameristica e una per grande orchestra, ma Viotti ha comunque scelto di rinunciare alla bacchetta per sottolineare il carattere intimo e sofisticato di questo lavoro importantissimo per l’estetica debussiana e in misura più segreta per certi indirizzi della musica del novecento.
Con la stessa perizia – espressività massima del gesto attraverso movimenti limitati del corpo e allo stesso tempo desiderio di essere in contatto contemporaneamente con le diverse sezioni dell’orchestra attraverso un abbraccio ideale – Viotti si è immerso da par suo nelle partiture più impegnative. L’isola dei morti fornisce all’autore l’ennesimo spunto per approfondire una vena pessimistica che si ritrova in tanti momenti della sua produzione (celebre anche qui il richiamo al tema del Dies Irae) e che si esplicita attraverso una orchestrazione spesso cupa e angosciante. Qui Viotti ha dato prova di un profondo insight nei confronti della poetica di un musicista che per fortuna è oggi sempre più studiato ed eseguito e ha messo a punto una esecuzione di grande fascino, per molti motivi non perfettamente compresa da parte del grande pubblico, poco abituato a questo lato intimistico della poetica del musicista russo . Pubblico che in parte è stato come soverchiato anche dalle complessità sonore tipiche di Skrjabin: nel Poema op. 54 si ascoltano preziosismi timbrici insoliti e accumulazioni sonore che non possono lasciare certo indifferenti. Il tutto accompagnato da specificità ritmiche che sono ben note agli estimatori di certa produzione pianistica del musicista, massimamente incluse nella coeva quinta sonata.
Risulta chiaro come questa piccola enciclopedia degli umori di un ventennio cruciale per gli sviluppi della musica novecentesca non lasci spazio a un ascolto distratto e poco partecipe. Il seme è stato però gettato e ben coltivato da Viotti, che non poteva certo aspirare alle ovazioni da stadio che accompagnano altre esecuzioni di partiture di impianto molto più esteriore. Tutto ciò è stato ben compreso però dall’uditorio, soggiogato dalla profondità della musica ma attento alla grande comunicatività del direttore, una comunicatività forse più diretta all’orchestra che al pubblico stesso, ma non per questo meno lodevole e coinvolgente. Del resto, anche grazie a questa prova, il pubblico avrà sicuramente modo di avvicinarsi ulteriormente in futuro alle proposte musicali di Viotti, tra le altre cose impegnato il prossimo anno, sempre alla Scala, nel Romeo et Juliette di Gounod.