di Luca Chierici foto © Puxeddu
L’attesa nei confronti del nuovo recital di un pianista tra i più seguiti dei nostri giorni non ha certamente deluso martedì scorso il folto pubblico che gremiva la Sala Verdi del Conservatorio, la cui gestione era affidata l’altra sera alla Società del Quartetto. Daniil Trifonov, talento universalmente riconosciuto ma allo stesso tempo in continuo divenire, anche a causa della sua giovane età (ventisette anni), ha mostrato ancora una volta la propria stimolante attitudine alla ricerca, caratteristica che lo rende molto diverso dalla stragrande maggioranza dei colleghi. Trifonov si presenta oggi davanti al pubblico rendendolo partecipe della propria analisi interiore, della scoperta della bellezza racchiusa nelle pagine da lui affrontate, che si tratti di Beethoven o di Chopin, di Schumann o di Prokof’ev. Quella di Trifonov, per il momento, non è ricerca di un percorso storico, come era tradizione del concertismo russo fin dai tempi di Anton Rubinštejn, ma non è neppure un sottostare al puro deliquio sonoro o al fascino del ‘pezzo d’effetto’ come purtroppo si riscontra in tanti, troppi solisti delle giovani generazioni e come in parte si sarebbe potuto sospettare attraverso l’impaginato del penultimo recital portato in giro da Trifonov lo scorso anno, giocato su discutibili accostamenti legati al nome di Chopin.
La novità del nuovo programma di questo Trifonov versione 2018 consisteva nella scelta di elementi ben radicati nel repertorio, o almeno noti attraverso una tradizione esecutiva di primissimo piano. Discutibile era semmai la logica degli accostamenti, unico neo che ha di pochissimo adombrato il carattere di un recital la cui bellezza e perentorietà si sperimenta davvero una volta ogni dieci, vent’anni almeno, soprattutto da quando è scomparsa negli anni ’80 e ’90 quella manciata di importantissimi interpreti storici che coinvolgevano l’uditorio attraverso uno spettro di caratteristiche personali affatto diverse tra loro e allo stesso tempo paragonabili in termini di peso specifico.
Il programma dell’altra sera poteva essere a priori criticabile attraverso un esame tutt’altro che complesso. Poco c’entrava infatti l’Andante favori di Beethoven – notoriamente pensato dal compositore come tempo centrale della Sonata Waldstein e poi sostituito da un più conciso e drammatico Intermezzo – con la Sonata op.31 n.3 fatta seguire da Trifonov senza soluzione di continuità. Non vi è motivo sostenibile nel proporre questo tipo di accostamento, come non vi è stato nel momento in cui il pianista ha fatto seguire, ancora senza cesure, il Presto passionato di Schumann alla scarsamente eseguita raccolta Bunte Blaetter op. 99. L’unico punto di contatto semmai era di tipo interno: a un Andante estrapolato da Beethoven si accostava un Presto a propria volta estrapolato da Schumann dal contesto originale, ossia dall’identità pregressa con il finale della Sonata in sol minore op. 22, anche in questo caso sostituita dall’autore con un finale meno problematico. Il tema dell’estrapolazione di pagine originali non stava peraltro in piedi per il semplice fatto che la logica avrebbe richiesto semmai l’esecuzione della Sonata op.53 di Beethoven e della Sonata op.22 di Schumann al posto degli altri numeri in programma. Ancor meno legata a una possibile logica consequenziale era poi la scelta dell’ottava sonata di Prokof’ev che chiudeva il cartellone della serata.
Ma non era questo il motivo pregnante che poteva nuocere al successo strepitoso della serata stessa. Né lo era l’esecuzione degli elementi del programma avvenuta senza rispettare le cesure originali, che possono spezzare il climax del recital attraverso l’applauso liberatorio del pubblico. Si è quindi ascoltata di fila la prima coppia di pezzi beethoveniani , e in seguito la seconda coppia schumanniana. Per quanto detto precedentemente a proposito degli accostamenti scelti dal pianista, l’esecuzione senza cesure degli elementi dello stesso autore non aveva ragion d’essere. Oggi è di moda proporre (direi meglio imporre) al pubblico questo tipo di impaginati che prevedono più elementi, l’uno in fila all’altro. Una giustificazione può in alcuni casi essere trovata nel caso di esperimenti analoghi imposti da altri colleghi (ad esempio András Schiff o Grigory Sokolov, che collegano tra loro elementi che rivelano affinità più plausibili). Ma in ogni modo ci dichiariamo avversi a questo tipo di coercizione sul pubblico, come se lo stesso venisse unicamente visto come elemento disturbatore attraverso l’applauso delle visioni personali dell’interprete. Non abusi l’artista della pazienza e dell’accondiscendenza del pubblico stesso che, tutto sommato, rappresenta la committenza privilegiata di ogni evento concertistico.
L’interesse principale che scaturiva dalla proposta di Trifonov non aveva però fortunatamente a che fare né con gli accostamenti di cui abbiamo parlato né con il vezzo della mancanza di cesure tra i numeri in programma. Che cosa ha dunque trasportato il pubblico ad esternare il più caloroso dei consensi nei confronti del giovane Daniil? Il motivo è spiegabile attraverso una lettura a diversi livelli. Più superficialmente si tratta innanzitutto di fascino personale, di capacità di avvinghiare l’uditorio attraverso un pianismo immacolato, seducente, dove ogni evento sonoro è chiaramente frutto di una convinzione interpretativa assoluta, mai lasciata al caso. Più in profondità, vi è anche la capacità da parte dell’artista di convincere l’ascoltatore dell’importanza del testo che si sta eseguendo, del suo valore ( “unico”, in quello specifico momento e contesto) all’interno della letteratura musicale. È prerogativa di pochissimi artisti quella di trasmettere al pubblico la propria fede incrollabile nei confronti del repertorio scelto per la serata, e in questo senso Trifonov riesce a meraviglia nel compito.
L’ascoltatore che ha qualche anno di più sulle spalle e che conosce almeno a grandi linee la storia dell’interpretazione si è compiaciuto però di un altro aspetto, se vogliamo più specialistico ma non meno importante. Come è avvenuto nel caso di pochi altri giovani artisti del passato non molto lontano (pensiamo soprattutto a Kissin, per rimanere nell’ambito della scuola e della sensibilità russa) si verifica anche nel caso di Trifonov quello speciale processo che porta il giovane artista ad assimilare il meglio della tradizione interpretativa del passato e a rielaborare la stessa secondo una sensibilità personale che può portare ad esiti anche molto differenti dagli esempi di partenza. Una cosa è certa: nessuno sarebbe stato in grado di eseguire gli elementi del programma dell’altra sera partendo dall’algida perfezione della pagina di una edizione Urtext. Si tratta di musiche passate attraverso il travaglio interpretativo di artisti sommi che ne hanno magari per primi esplorato i segreti più nascosti. Le meraviglie che si sono ascoltate l’altra sera non avrebbero potuto palesarsi indipendentemente dall’esistenza di alcuni documenti sonori di riferimento. Soprattutto nel caso schumanniano la luce che illuminava il cammino proveniva sicuramente da almeno due tra le pochissime esecuzioni storiche, quella di Richter nel caso dell’op. 99 e di Horowitz per il Presto passionato. E sull’Ottava sonata di Prokof’ev incombeva ancora la figura dello stesso Richter, accanto a Gilels e a Lazar Berman.
Trifonov è andato oltre, si è servito di queste tracce indispensabili per procedere con passo sicuro in una esplorazione che virtualmente potrebbe anche non avere mai fine (se la avesse non ci sarebbe più motivo per continuare nell’opera) e ha mostrato ancora nuovi, magnifici dettagli, in un contesto di immenso fascino. Se la sua esplorazione del mondo beethoveniano si manteneva entro i confini di una pur bellissima lettura personale, l’intuito gli ha permesso di gettarsi a capofitto nel disordine di una manciata di pezzi scritti da Schumann in epoche diverse e di trovare miracolosamente i caratteri di una unitarietà perduta, o di approfondire ancora di più la lacerante disperazione di quel Presto che rappresenta una delle più intime e sconvolgenti confessioni del tormentato musicista. E ancora l’eredità dei grandi pianisti russi che abbiamo appena citato, in qualche caso testimoni in prima persona della nascita e della crescita della grandiosa sonata di Prokof’ev, è stata raccolta e rielaborata da Trifonov attraverso una esecuzione nella quale la meraviglia e lo stupore della novità era sostituita dalla sicurezza di un cammino spianato, senza più conflitti e difficoltà né tecnici né interpretativi.