di Luca Chierici foto © Jim Rakete – Sony Classical
Innanzitutto una precisazione: quanti eredi (più o meno legittimi) di Fischer-Dieskau esistono al mondo? Tanti, a giudicare dalla sicurezza con la quale questo o quel baritono che ha seguito corsi di perfezionamento con il grande predecessore viene indicato come “il” depositario di tanto verbo. Eravamo rimasti, nel conteggio, a Matthias Goerne, che peraltro è stato l’applauditissimo protagonista di un recital scaligero nel 2014. E Goerne aveva accantonato la figura piuttosto ingombrante di un altro divo, Thomas Quasthoff, che tra i tanti meriti non aveva certo quello di una raffinatezza di eloquio paragonabile a quella dell’immortale Dietrich. Un’altra precisazione: è corretto presentare Winterreise con lo stesso volume di suono e con gli stessi accenti in una piccola sala adatta per la musica da camera e in un teatro enorme come la Scala? Evidentemente no, ma questo è un particolare che viene dimenticato da molti protagonisti del concertismo di oggi, soprattutto pianisti e violinisti, incapaci di trasmettere il suono con una intensità parametrata al luogo nel quale si stanno esibendo, o convinti che il suono “vero” sia quello che proviene dalla casse di un impianto hi-fi che legge un cd di buona fattura.
Di voce, di bella voce, Christian Gerhaher ne ha a sufficienza e se la sua interpretazione del capolavoro schubertiano è chiaramente rivolta a sottolineare il carattere intimistico di un testo che può davvero essere letto in maniere molto differenti tra loro, non mancano nella sua dizione accenti che aiutano l’ascoltatore a percepire nel dettaglio il senso del lungo racconto.
Un racconto che necessita però la presenza di un grande pianista, in totale sintonia con il canto, e rispettoso delle indicazioni presenti nello spartito. Di accenti a supporto dei caratteri narrativi del ciclo se ne sono ascoltati pochi, vuoi perché il pianista – Gerold Huber – non riusciva a proiettare sufficientemente il suono, vuoi perché (temo sia questa la spiegazione) la portata di questi accenti veniva spesso fraintesa e ricondotta a un segno quasi trascurabile. Peccato, perché la serata avrebbe potuto dare maggiori emozioni e tutta la responsabilità del progetto non avrebbe dovuto pesare solamente sulle qualità di Gerhaher. Non esiste un solo pianista, nella storia dell’interpretazione di Winterreise, che non abbia dato voce a questi accenti, che sono necessari quanto lo è il canto anche perché l’arte di Schubert è fatta spesso di cose non dette esplicitamente ma che devono essere doverosamente sottolineate dagli interpreti appoggiandosi a quanto scritto e a quanto suggerito dalla condotta armonica, ritmica, dal disegno della frase. Vi sono state letture fin eccessive da questo punto di vista: si pensi all’esperimento Pollini-Fischer-Dieskau a Salisburgo, dove il grande baritono quasi doveva fare a gara con un pianismo dai toni troppo forti. Ma è meglio un leggero eccesso che un accompagnamento piuttosto statico, spesso penalizzante e non in sintonia con la visione del solista di canto. Della Winterreise, in altre parole, si è solamente colto un sottofondo perenne di disperazione e di rassegnazione che è pur contraddetto da ampi squarci luminosi, giustamente sottolineati dai grandi interpreti. E neanche la disperata cantilena del Leiermann ha però concluso in maniera vibrante il ciclo, quasi fossimo di fronte a un fuggevole corollario che non rendeva appieno il tragico appello del Wanderer schubertiano.