di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Primo spettacolo del 2019 al Regio di Torino, a partire dalla sera di giovedì 10 gennaio. E si è trattato della pucciniana Butterfly, quasi a controbilanciare sanamente sul côté novecentesco i titoli della prima parte di stagione: vale a dire il verdiano Trovatore di apertura (che recensimmo su queste stesse colonne, come ricordano di certo i lettori), poi seguito dall’Elisir d’amore (spettacolo peraltro ‘storico’ del Regio e già più volte ripreso e recensito), quindi dalla Traviata con la scialba e invero assai discutibile regia di Brockhaus, le curiose ma poco funzionali scene ‘a specchio’ di Svoboda che – irrimediabilmente ‘datate’ ed incongruenti con i farraginosi ed estenuanti cambi a vista – hanno destato sorpresa ma anche sconcerto in chi ancora non le conosceva, in abbinamento all’ottima direzione di Renzetti; spettacolo del quale solo per ragioni contingenti non è stato possibile riferire nella sua interezza, ecco la ragione di questi brevi e pur doverosi cenni. Proveniva dallo Sferisterio di Macerata, così come dalla medesima istituzione giunge questo allestimento di Madama Butterfly per la regia di Pier Luigi Pizzi che firma altresì scene e costumi, laddove la direzione è stata affidata a Daniel Oren, riapparso a Torino dopo parecchi anni.
Di allestimento risalente al 2009 si tratta, costituito di fatto da una scena unica entro la quale campeggia la ‘classica’ casa giapponese dalla caratteristica copertura e dalle pareti scorrevoli, collocata in posizione rigorosamente centrale, l’immancabile ed iper-realistico ciliegio sulla destra, quindi ponti e ponticelli (o più propriamente semplici praticabili lignei dotati di balaustre biancastre) sui due lati, come pure una sorta di palco rialzato nella parte anteriore, un impiantito di assi grigiastri e stuoia su ‘palafitte’ sul quale di fatto si muovono i personaggi suggerendo con un po’ di immaginazione l’interno della casa stessa… Pensato per la collocazione entro lo Sferisterio, l’allestimento (dotato di una sua innegabile tridimensionalità, come si evince bene dalle immagini riprodotte nel volumetto di sala) in realtà, a nostro avviso, soffre alquanto ricollocato al Regio dove lo sguardo di tutti gli spettatori converge sull’abitazione, perdendosi il gioco verosimilmente più movimentato sui praticabili laterali: ne risulta un effetto appiattito e bidimensionale. Peccato, un’occasione perduta.
Così pure la regia è parsa oltre che molto tradizionale, anche alquanto statica: con i protagonisti (e non solo loro) dalla gestualità del tutto prevedibile e stereotipata. Gli esempi poterebbero essere molti: a partire dalla celebrazione del matrimonio alla ‘cacciata’ dello zio bonzo, dalla prima notte di nozze all’apparizione di Yamadori (e poi quell’insopportabile far camminare taluni personaggi maschili come Goro con il classico passettino goffo da macchietta giapponese), il plateale ed insistito irrorare di petali la scena, che ci si poteva francamente risparmiare, giù giù sino alla scena del suicidio e, prima ancora, alla sbiadita apparizione di Kate. Insomma, sul piano visivo una Butterfly certo in linea con una presunta tradizione (che il pubblico più conservatore non a caso ha mostrato di gradire), quanto in definitiva piuttosto ‘piatta’, ben lontana dalle innovative proposte per dire di un Michieletto che tanto avevano diviso il pubblico quanto entusiasmato i più ricettivi disposti a mettersi in gioco rifiutando comodi luoghi comuni. Tutto il contrario della variegata direzione di Daniel Oren che ha invece lavorato di bulino e con innegabile cura (in qualche caso, ma solo occasionalmente, perfino con qualche eccesso) sulle dinamiche e sulla dimensione timbrica: ponendo in evidenza l’ordito strumentale pucciniano con gusto, eleganza ed anche con qualche coraggiosa scelta controcorrente. Anche le luci di Fabrizio Gobbi erano conseguentemente allineate sulla ‘normalità’ un po’ monocroma e soporifera del tutto.
Ed ora il cast. Rebeka Lokar (dapprima bianco vestita – ma in Oriente il bianco non è il colore del lutto? – poi mortificata nella seconda parte da un vestito dal colore inguardabile ed inqualificabile) è stata invero applaudita nei panni di Cio-cio-san: una voce, la sua, forse più adatta all’algida Turandot, ed una prova che, pur corretta, non ha però regalato veri brividi ed emozioni, nemmeno nei punti topici («Un bel dì vedremo» e «Tu piccolo Iddio!»). Sofia Koberidze nei panni di Suzuki le ha tenuto testa in maniera un po’ burocratica ed anche con qualche più o meno vistosa défaillance, ma come se non vi fosse vera partecipazione emotiva. Insomma tutta quella complicità femminile che tra le due donne è parte integrante del dramma è del tutto mancata.
Pinkerton era impersonato da Murat Karahan che dapprima pareva un poco esitante, salvo poi assumere accenti pseudo veristi quasi novello Turiddu. Bene Sharpless sbozzato con dignità ed un certo innegabile gusto da Simone Del Savio. Accettabili in complesso i comprimari, pur entro una cornice che stentava a decollare sul piano emotivo. Buona la prova del coro (istruito da Andrea Secchi), coro che immancabilmente riesce a commuovere nel celeberrimo passo ‘a bocca chiusa’ (ma buona parte del merito in tal caso va a Puccini, è innegabile). Inspiegabile se non del tutto fuorviante la presenza (pur professionalmente di livello) dei ballerini Letizia Giuliani e Francesco Marzola – anche coreografo – che hanno intessuto una sorta di passo a due, evidenti controfigure di Pinkerton e Cio-cio-san, prima che sorga il sole, dopo una notte trascorsa in vana attesa, quasi si trattasse di un improbabile e mellifluo sogno d’amore. Hanno finito per distrarre vanificando in buona parte l’effetto sublime della partitura pucciniana nel descrivere il ridestarsi del giorno. E se Oren ed orchestra ce l’hanno messa tutta per non sgualcirne la fragranza, l’occhio era attratto dagli inutili e pur ottimi ballerini e la distrazione per l’appunto pressoché inevitabile. Questo, beninteso a nostro modesto avviso.
Spettacolo in complesso non memorabile di cui ricorderemo con piacere la direzione e l’ottima prova fornita dall’orchestra: al quale il pubblico della ‘prima’ ha decretato un successo di maniera, senza apparenti riserve o vistose impennate verso l’alto né verso il basso, ma con applausi un po’ anodini e generalisti a tutto ed a tutti. Da ultimo: perché mai una bimba e non un bimbo come prescritto dal libretto? D’accordo, si dirà i ‘riccioli biondi’ d’ordinanza… infatti questa non è che che una boutade.