di Alberto Bosco foto © Javier del Real
Turandot è l’opera di Puccini che più accoglie le tendenze alla spersonalizzazione tipiche della drammaturgia e della musica del Novecento: fino al disgelo finale, ovvero a quel lieto di cui il compositore non a caso procrastinò la stesura fino alla morte lasciandolo incompiuto, sui personaggi tende a prevalere lo sfondo decorativo e la vicenda si articola secondo l’implacabile incedere di un rituale. Era quindi lecito aspettarsi che un’opera siffatta si adattasse a un artista come Robert Wilson, che nelle sue regie mette in atto un tipo di teatro statico, vagamente ispirato alla cultura orientale e basato su movimenti minimi e codificati, lontani dalla esplicita e diretta manifestazione di un’interiorità. L’esperimento di questa Turandot, una nuova produzione andata in scena pera la prima volta al Teatro Real di Madrid, è stato, infatti, interessante, e a tratti istruttivo, anche se i limiti della scelta estetica di Wilson non si possono passare sotto silenzio. E questi stanno innanzitutto nell’aver elevato al livello formale una caratteristica che è invece di contenuto: l’opera di Puccini non è un’opera cinese, ma un’opera di ambientazione cinese. Il contrasto fra i tratti antropomorfici del canto pucciniano e delle forme melodrammatiche tradizionali con l’ingranaggio impersonale della reggia che fagocita gli individui ed è incarnato dal poderoso dispiego di mezzi orchestrali, è alla base del fascino e del senso drammatico della partitura e si perde se i cantanti in scena, soprattutto i tre stranieri Timur, Calaf e Liù, sono disumanizzati e ridotti a recitare secondo un sillabario di gesti convenzionali, privi di spontaneità e per di più obbligati a non rivolgersi mai lo sguardo, che è invece fissamente rivolto alla platea.
Tali ed altri effetti stranianti hanno avuto così un duplice risultato: quello di non far immedesimare il pubblico, che infatti è stato piuttosto tiepido nell’accogliere questa proposta registica, e quello di creare in più occasioni una frattura tra fossa orchestrale e palcoscenico. Da qui l’interesse dell’esperimento, perché a forza di vedere personaggi impassibili, l’attenzione finisce per forza di cose per spostarsi sulla trama orchestrale, così, la regia di Wilson ha messo in luce quanto la drammaturgia di Puccini sia sinfonica, quanto poggi sulle solide gambe dell’orchestra, pur non essendo avara, com’è risaputo, di spunti melodici memorabili, i quali però in Turandot, e nell’ultimo Puccini in genere, sono assai più brevi e puntuali di quanto la memoria non lasci credere. Parallelamente, ha rivelato la vuotezza sinfonica del finale posticcio scritto da Alfano che, almeno dal bacio di Turandot e Calaf in poi, s’agita in modo sconclusionato verso una conclusione tanto fragorosa quanto vuota, proprio perché nulla in scena, data la staticità dei personaggi e l’assenza di grandi masse e decorazioni, ha potuto supplire all’assenza di drammaturgia sinfonica.
Wilson, però, non si è solo limitato ad applicare il suo campionario di gesti e movenze, ma ha anche modificato sostanzialmente i rapporti tra i protagonisti impliciti nell’opera. La libertà più evidente è stata quella di ridurre tutti i personaggi, incluso Calaf, a comprimari di Turandot, che nel finale grandeggia sola e non in coppia. Se per Calaf, la perdita non è stata così significativa, essendo sotto sotto persino più freddo della «principessa di gelo», nel caso di Liù, l’idea ha di fatto comportato la cancellazione dell’impatto drammatico del personaggio, che funge da polo di contrasto e da catalizzatore del cambio interiore di Turandot. Più interessante e convincente, invece, è stata l’interpretazione che Wilson ha dato della protagonista, che sin dalla sua prima aria tradisce, con poche e puntuali espressioni facciali, una fragilità e una tenerezza che aprono spiragli sulla psicologia di questa vergine in apparenza tanto tremenda. Così, ad esempio, quando Calaf azzecca l’ultimo indovinello, invece di indignarsi o rimanere impassibile, il suo primo impulso è quello di sorridere, contenta che sia arrivato finalmente qualcuno a liberarla da quel circolo vizioso di enigmi e decapitazioni. E il risultato finale è stato sorprendente, con un ribaltamento delle usuali prospettive, per cui alla fine la più umana di tutti è parsa proprio Turandot, di solito invece sempre di ghiaccio e impassibile.
Ben equilibrata la compagnia di canto del secondo cast (Oksana Dyka, Roberto Aronica e Miren Urbieta-Vega), notevoli Ping e Pong e Pang con le loro allegre scorribande e buona la direzione di Luisotti, sempre musicale e attento alla malleabilità del canto, e pertanto forse un po’ in contrasto con la regia, di cui però ha subito l’influsso nella scelta di tempi piuttosto lenti. Ma soprattutto memorabili gli effetti di luce, ambito in cui Wilson è veramente maestro.