di Luca Chierici
Due concerti pianistici di grande richiamo hanno avuto luogo a Milano rispettivamente al Teatro alla Scala (il 18 Febbraio) e al Conservatorio (il 20, per la Società dei Concerti) ponendo a confronto due artisti di età nemmeno paragonabile: Maurizio Pollini, settantasette anni, si è esibito in un programma classico dedicato a Chopin e a Debussy; Alexander Malofeev, diciottenne moscovita, spaziava da Beethoven a Prokof’ev attraverso un percorso tipico di certa tradizione russa. Il periodo storico relativo ai due programmi non era così vistosamente disomogeneo, però, e se è vero che diverse generazioni leggono in maniere differenti il retaggio di una tradizione fortemente consolidata, i gradi di libertà nell’intendere Beethoven o Debussy non possono essere poi così divergenti, pena il fraintendimento di un messaggio che è sì universale, ma anche ancorato a un’epoca, a uno stile imprescindibile di riferimento.
Malofeev ha l’aspetto di un ragazzino tutto acqua e sapone, biondissimo, anche se uno o più diavoletti si nascondono sotto l’apparente figura di artista rassicurante, beneducato che è tipica di un altro giovane artista, l’americano Jan Lisiecki, che era anch’esso in città in questi giorni e che abbiamo già seguito in passato sul Corriere Musicale. Apparentemente Malofeev è in grado di suonare qualsiasi cosa, con una facilità manuale sorprendente e una evidente predilezione per gli autori di casa, vuoi per questioni di sangue, vuoi per l’esistenza di una saggia propensione, nel sistema educativo del suo paese, a tenere in gran conto una tradizione musicale di altissimo livello. Con una tecnica perfetta quanto basta, anche se non sempre infallibile a livelli stratosferici, il pianista russo ha affrontato un programma di enorme impegno che sembrava voler toccare le corde principali del grande repertorio. E lo ha fatto partendo da due autori assai problematici, ancora lontani dalla sua sensibilità di musicista e che potranno essere riconsiderati da lui in un prossimo futuro. Non sappiamo esattamente come il decano dei pianisti russi, Anton Rubinštejn, si immergesse nelle acque agitate della beethoveniana “Appassionata”, ma di quella tradizione, passata attraverso le mani di altri giganti del pianismo russo, non ultimo Sviatoslav Richter, il giovane Malofeev pare ereditare solamente un approccio di estrema violenza che, soprattutto nell’ultimo movimento, trascende i limiti di un gusto dal quale non si può prescindere. Né Malofeev è apparso in sintonia con la raffinatissima scrittura raveliana di Gaspard de la nuit: nella sua lettura mancavano tutte le preziosità di un linguaggio sul quale hanno meditato a lungo figure come quella di Gieseking o di Michelangeli (per citare i massimi esempi), un linguaggio che non può essere risolto solamente in termini di destrezza digitale e che era appesantito ancora da un aspetto puramente muscolare. Il virtuosismo a se stante, semmai, poteva rappresentare una delle chiavi interpretative delle pagine scelte nella seconda parte del programma, dove troneggiavano la seconda sonata di Rachmaninoff, colta in una delle sue successive trasformazioni volute dall’autore, e la settima di Prokof’ev, che più “di guerra” di così non poteva essere illustrata. Tra questi colossi si intercalava la preziosa “Dumka” di Čajkovskij, recuperata al repertorio da Horowitz in tempi oramai lontani. Malofeev si è gettato ancora a capofitto in questo materiale incandescente con ottimi risultati tecnici ai quali una successiva maturazione dovrebbe aggiungere il senso di una interpretazione più profonda, in linea con i contenuti più intimi di un linguaggio pure estremamente estroverso. Nella tradizione generosissima dei “bis” tipici dei pianisti russi (quanti ne abbiamo ascoltati negli anni da campioni come Berman, Sokolov, Kissin!) il giovane Alexander ha mostrato ancora i muscoli attraverso la Toccata di Prokof’ev e una celebre sezione dello Schiaccianoci trascritto da Pletn’ev, mentre il ricordo del Rachmaninoff interprete è stato evocato attraverso uno dei dodici pezzi delle Stagioni di Čajkovskij, seguito dall’immancabile Ottobre che rappresenta la sigla elettiva di un salotto di altissimo livello. Con questo programma, molto simile a quello presentato al Festival di Brescia e Bergamo lo scorso mese di Maggio, Malofeev completava in maniera definitiva la propria presentazione al pubblico italiano, che a Milano, alla Scala, aveva visto l’interessante collaborazione con Gergiev attraverso il primo Concerto di Čajkovskij nel febbraio di due anni fa, quando il giovanissimo artista di anni ne aveva appena 16.
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La prospettiva di ascolto, che tiene ovviamente conto dell’età e dello stato di maturazione, si spostava considerevolmente alla Scala nel momento in cui il pubblico, soprattutto quello che seguiva Maurizio Pollini da quasi sessant’anni, dai tempi della vittoria al Concorso di Varsavia, si accingeva a partecipare all’attesissimo recital di uno dei più grandi interpreti che hanno dominato la scena a partire da quel periodo oramai lontano. Molte volte ci siamo soffermati sullo stato dell’arte di un approccio artistico tra i più complessi che ci è stato dato di considerare in un periodo storico che da una parte ci permetteva di cogliere gli ultimi bagliori delle vecchie generazioni di pianisti entrati nel mito, dall’altra vedeva l’imporsi di un modo nuovo, sicuramente (ma non del tutto) meno personale nel riferirsi al repertorio classico e novecentesco. In linea di massima è stato difficile giustificare negli ultimi anni, nel caso di Pollini, l’evidente perdita di controllo del mezzo tecnico, in un approccio che un tempo era famoso anche per la perfezione assoluta. Quella perfezione che, sommata a una lucidità ed esattezza di comprensione formale del repertorio, faceva di ogni proposta del pianista milanese un punto di riferimento assoluto. Non è un caso che per la generazione dei pianisti nati nei primi anni ’40 e protagonisti di carriere ai massimi livelli, vi sia stato un progressivo affievolimento del lato squisitamente tecnico: personaggi come Radu Lupu, Daniel Barenboim, Vladimir Ashkenazy, Martha Argerich e lo stesso Pollini hanno dovuto fare i conti, chi più chi meno, con dei problemi naturali di integrità fisica, forse dovuti a uno stile di vita più frenetico rispetto a quello vissuto dagli artisti delle generazioni precedenti. E se la Argerich, vera e propria forza delle natura, si è salvata anche rinunciando all’attività di solista e comparendo in pubblico solamente con l’ausilio dell’orchestra o degli amici solisti, se Ashkenazy e Barenboim si sono rivolti, chi in maniera esclusiva chi parziale, alla direzione d’orchestra, i soli Pollini e Lupu hanno continuato indefessamente a prodursi nelle sale da concerto tenendo fede alla propria missione originale.
Se rimaniamo anche solamente agli ultimi due esempi citati, è chiaro a tutti che nel caso di Lupu si è proceduto all’ulteriore approfondimento di qualità interpretative assai seducenti, che fino ad ora hanno compensato in parte la perdita di dominio tecnico. Nel caso di Pollini lo scollamento tra idea musicale e mezzo tecnico si è fatto sentire in maniera più profonda, soprattutto per il fatto che il pianista milanese ha voluto proseguire in modo esclusivo il proprio rapporto con la musica insistendo su alcuni elementi iniziali, su un atteggiamento che non lo ha mai abbandonato nel corso della carriera. Tanto da far pensare, ad esempio, al completamento del ciclo delle sonate beethoveniane, negli anni 90, quasi come un elemento forzatamente dovuto al pubblico e alla casa discografica di elezione, non a un moto del tutto spontaneo. Spontanea, questo sì, è stata la ricerca di Pollini nei confronti di quella parte di repertorio che per lui rappresenta l’espressione massima della letteratura pianistica di tutti i tempi, con una concentrazione particolare rivolta allo studio dell’ultima parte della produzione dei grandi musicisti, da Mozart a Beethoven, Schubert, Chopin, l’estremo Liszt, e all’approfondimento di lavori emblematici che hanno cambiato il corso della Storia, come il Clavicembalo ben temperato, certe infuocate pagine schumanniane, la Sonata dello stesso Liszt, gli Studi e i Preludi di Debussy, la seconda Sonata di Boulez o alcuni Klavierstücke di Stockhausen. Per sostenere queste sacrosante convinzioni avrebbe dovuto realizzarsi nel tempo l’occorrenza di uno stato di integrità fisica assoluta, che è venuta invece a mancare. E del resto Pollini ha sempre rigettato la prospettiva di un pianismo “personalizzato” come quello dei grandi colleghi che lo avevano preceduto, disposti a fare i conti con l’età e le proprie forze e, diciamolo pure, recuperando gli elementi di giovinezza perduti contando anche su mille qualità di timbro, di fraseggio, di eloquio che non fanno parte della forma mentis di Pollini. In questo contesto non rimaneva al pianista che affrontare o meno una decisione sofferta: abbandonare il mestiere, come ha fatto a un certo punto il più anziano Brendel, o continuare come se nulla fosse, prendendo in considerazione solo parzialmente la rinuncia ad alcuni tour de force non più sostenibili, come la Wanderer-Phantasie, Petruška, i già citati Boulez e Stockhausen (ma non la Hammerklavier, eseguita fino a pochi anni orsono).
Questa lunga premessa è necessaria per comprendere gli esiti del recital dell’altra sera alla Scala, quando si sono ancora ascoltati al meglio gli elementi tecnicamente meno rischiosi, come i Notturni op. 62 e la Berceuse di Chopin, ma solamente in un pallido ricordo (secondo gli standard del pianista, s’intende) lo Scherzo op. 39 o la Polacca op. 44 e la prima Ballata. Nel caso dei Preludi di Debussy, invece, a fronte di una Cathédrale engloutie ancora ai massimi livelli, si è ulteriormente aggravata la sostanziale incomprensione di certi lati umoristici del Debussy di Les collines d’Anacapri o di Minstrels, che unita a una non perfetta dizione pianistica anche di altri momenti particolarmente impegnativi gettava un’ombra sul significato della proposta della serata. Il pubblico più giovane, che non ha seguito questa evoluzione nel tempo del pianismo di Pollini, forse non si rende conto di quali emozioni potevano dare i recital di un tempo e ha tributato all’artista un applauso lunghissimo che testimonia più l’affetto verso il personaggio e il suo ruolo di “garante” che l’approvazione verso i contenuti dei suoi concerti attuali.