di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
A rileggere le cronache relative alla prima esecuzione assoluta di Ariadne auf Naxos alla Scala (1950) si è colti da un senso di stupore e di tristezza: un ritardo di trentaquattro anni rispetto alla comparsa della seconda versione (definitiva) dell’opera, avvenuta il 4 Ottobre del 1916 a Vienna, un responso critico – quello di Franco Abbiati sul “Corriere” – che prima ancora che sullo spettacolo si scaglia contro una operazione teatrale e musicale giudicata “di scarsa vitalità”, contenente parti vocali di “scopiazzato e sfasato virtuosismo” e via dicendo. La fortuna di questo capolavoro non ebbe bisogno certo di tardive conferme da parte di un territorio dove non cresce erba al di fuori del recinto del melodramma nostrano, ma è certamente a partire dalla grande ripresa salisburghese di Böhm della fine degli anni ’70 che Ariadne si è definitivamente imposta come titolo di grande richiamo nei teatri di tutto il mondo. Merito del grande direttore tedesco, che ne aveva dato mirabili letture fin dai tempi della seconda guerra mondiale, in un contesto ahimè deturpato da più che censurabili connivenze con il nazismo, anche da parte della più grande Zerbinetta che mai abbia calcato le scene, Alda Noni. Fu nel 1984 che la Scala ospitò la sua più importante Ariadne auf Naxos, con Sawallisch sul podio, la miracolosa Gruberova nei panni di Zerbinetta e una buona Eva Marton nel ruolo del titolo. Poi solamente un altro allestimento nel 2000, ripreso sei anni dopo (con un passaggio di consegne da Sinopoli a Tate) in cui la regia di Ronconi e le scene di Margherita Palli rendevano ancora giustizia all’impianto figurativo e alla complessa messa in scena dell’opera, costruita come è noto in vista di un gioco di “teatro nel teatro”, peraltro non nuovo ma sempre accattivante per il pubblico.
Le attese per una nuova produzione affidata a Frederic Wake-Walker, con le scene di Jamie Vartan, le luci di Marco Filibeck e i video di Sylwester Luczake Ula Milanowska non erano grandissime, ma si sperava di assistere a qualcosa di meno deprimente e inutile rispetto a quanto si è visto l’altra sera. E dire che il gioco metateatrale di Hofmannsthal si presterebbe a innumerevoli interpretazioni che non vadano necessariamente a sconvolgere un impianto calcolato al millimetro e rispondente in pieno alle alchimie sonore di Strauss. Vieteremmo innanzitutto, d’ora in poi, la comparsa in scena di roulotte, furgoncini e altri mezzi semoventi che trasformano gran parte della scena in un garage o in uno squallido scenario di periferia. In questo tipo di veicoli trovavano posto i camerini dei protagonisti e la sala trucco, ma non si capisce come il tutto possa avvenire di fronte a un palazzo settecentesco che fa bella mostra di sé sullo sfondo. Ma se l’impianto scenico del prologo poteva avere ancora un senso, inutilmente ripetitivo era il gioco di proiezioni caleidoscopiche che regolava tutto lo svolgimento dell’”opera”, ambientata in un’isola di Naxos ridotta a una piattaforma inscatolata in un contenitore a pareti bianche (poi multicolore) e a una sorta di conchiglia bivalve stilizzata (avete presente i “letti a contenitore” ?) che si richiudeva su Arianna al termine del suo grande Monologo. Arianna deve rimanere in scena, pure “assente” come recita il libretto, mentre le maschere si abbandonano al loro intermezzo e soprattutto quando Zerbinetta inizia la sua famosa grande scena e aria. Non qui, dove la povera Sabine Devieilhe, bravissima ma non eccelsa interprete del ruolo, si limita a bussare direttamente sul coperchio della conchiglia-contenitore per risvegliare Ariadne, senza ottenere risposta. Accade quindi che Zerbinetta reciti e canti il proprio lunghissimo intervento senza avere di fronte la persona cui l’intervento stesso è dedicato. L’incontro tra Bacco e Arianna è storicamente il punto debole di quasi tutte le regie dell’opera, perché nulla accade e tutto è indirizzato al trionfo dello slancio amoroso tra i due, alla glorificazione della Musica, a una ascesa verso l’Alto che è commentata da Strauss con un evidente riferimento tonale al wagneriano ingresso degli Dei nel Walhalla al termine del Rheingold. Qui è il gioco delle proiezioni luminose a farsi troppo insistente e alla fine inutile, addirittura distraendo l’attenzione dello spettatore dal fatto puramente musicale e teatrale. Un ultima nota riguarda i costumi: non si è capito il perché dei continui cambiamenti d’abito di Zerbinetta (in questo caso anche di acconciatura) e delle maschere, che per pochi istanti al termine del Prologo indossano improbabili quanto sgargianti frac d’un acceso colore aureo.
Ci saremmo accontentati a questo punto di una buona esecuzione, in linea con una tradizione che non manca certo di esempi di altissimo livello. La compagnia di canto era complessivamente molto buona ma, come dire, poco motivata da una direzione spesso piatta e per nulla convincente. Lo si capiva subito fin dall’inizio: il miracolo di Ariadne auf Naxos consiste nel far suonare un’orchestra ridotta di trentaquattro elementi conservando la sonorità e soprattutto la variegata differenziazione timbrica di un complesso molto più ampio. Ma allo stesso tempo si deve permettere che il volume complessivo non attutisca il contributo vocale dei protagonisti, che è spesso affidato a linee virtuosistiche o a tessiture impervie di proverbiale difficoltà. L’Ouverture del Prologo, che cita quasi tutti i temi presenti successivamente nel Prologo stesso e nell’Opera, era a questo riguardo negativamente esemplare, con una sequenza di motivi accatastati senza soluzione di continuità e senza alcuna differenziazione di significato. In più di una situazione l’orchestra si sovrapponeva in seguito alle voci rovinando il prezioso lavoro di cesello voluto dall’Autore. Dal canto loro i protagonisti e le parti di rilievo secondario (ma ce ne sono in Ariadne?) sono stati irreprensibili, con un particolare rilievo per la veemente anche se un poco costruita Primadonna della Stoyanova, la già citata Zerbinetta, precisa e intonata, il Bacco di Michael Koenig (caso più unico che raro di tenore che in questa parte massacrante conserva una intonazione perfetta e porge la propria linea impervia di canto senza sforzo apparente), il Maestro di Musica (di lusso) affidato a Markus Werba e il quartetto delle maschere. Meno impressionante ci è sembrato il Compositore di Daniela Sindram, forse frastornata dalla baraonda del Prologo. Ottimi i comprimari, innanzitutto il terzetto delle Ninfe e le parti che erano affidate a giovani allievi dell’Accademia del Teatro. Un discorso a parte va fatto per l’unico ruolo non cantato, che era affidato nientemeno che al Sovrintendente del Teatro alla Scala, Alexander Pereira. Non è per inutile piaggeria che sottolineiamo come l’interpretazione di questo singolare carattere abbia avuto da parte di Pereira una definizione perfetta, tant’è che in fondo la maggiore partecipazione emotiva allo spettacolo è stata proprio la sua, unico caso di personaggio che allo stesso tempo era Maggiordomo, portavoce del committente del pastiche – alias Borghese Gentiluomo – e dirigente del Teatro nel quale la rappresentazione dell’opera di Strauss aveva effettivamente luogo.
Buono anche se non eccezionale il successo di pubblico, con un evidente imbarazzo all’applauso al termine del Prologo (quanti tra gli spettatori conoscevano il titolo?) e dissensi per la regìa al termine dello spettacolo.