di Francesco Lora foto © Casaluci
Non è necessario che una fondazione lirico-sinfonica abbia un direttore musicale nominato affinché le sue funzioni siano di fatto esercitate: senza vincoli formali tra istituzione e concertatore, per esempio, e già da anni, al Teatro La Fenice la bacchetta d’oro di Myung-Whun Chung si alza regolarmente sugli spettacoli di punta del cartellone, contribuendo nello sostanza all’identità della scena veneziana. La stessa situazione si è ora conformata al Teatro Comunale di Bologna: dopo la lacrimatissima partenza di Michele Mariotti, ufficialmente un direttore musicale non c’è; ma si constata la presenza costante, regolare e sempre più responsabilizzata di Asher Fisch, il sessantenne israeliano che la sa lunga sul Romanticismo tedesco in particolare, e che otto anni fa, sotto le Due Torri, aveva già dato una memorabile lettura del Deutsches Requiem di Brahms. Lo si è lì ritrovato il 14 aprile scorso, quando ha diretto orchestra e coro petroniani in una Sinfonia n. 2 di Mahler da stupore: inebriante il profluvio di colori entusiasticamente innestati su una prestanza tecnica generale, al di sopra di ogni sorpresa, dimostrando sia il capillare possesso della partitura sia la cordiale intesa con le maestranze; puntuale la restituzione, nei rispettivi luoghi, ora del tragico, ora del celestiale, ora del grottesco, ora del sarcastico, con il soprano Charlotte Anne Shipley chiamata a contribuire con la spontanea freschezza di porgere e mezzi, e con il mezzosoprano Lioba Braun accolta da regina mentre dava lezione di stile nel Lied al quarto movimento. Eseguito così, Mahler è un regalo per chi si avvia ad amarlo: rifulge di mille informazioni testuali eppure scorre, all’ascolto, con una chiarezza e una semplicità affatto inusuali.
L’esperienza si è in qualche modo ripetuta il 26 ottobre, nell’Auditorium Manzoni, in un eclettico concerto utile a fare la prova del nove: la prima esecuzione assoluta di Sinopia di Solbiati, il Concerto dell’albatro di Ghedini – l’Ars Trio Roma ha tenuto con pragmatica spigliatezza le parti solistiche – e il più poderoso scomparto costituito dalla Sinfonia n. 7 di Beethoven. A quest’ultima parte di programma si fa particolare riferimento, giacché nel 2020 si celebreranno i 250 anni dalla nascita del compositore e il Comunale contribuirà a piene mani, anche e soprattutto mediante il lavoro di Fisch: a lui spetteranno la Missa solemnis (4 febbraio), la Fantasia corale e la Sinfonia n. 9 (29 aprile, la prima impegnandolo anche come pianista) nonché il Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 (il 22 maggio, unito alla Wagner-Symphonie di Bruckner). Ebbene: la Settima di Fisch ha fissato un modello di fraseggio acuto, razionale, accattivante, mai calligrafico, con le strutture compositive illustrate puntigliosamente non come scopo ma come mezzo, e con la drammaturgia implicita esaltata da intuizioni tanto minime quanto formidabili; ciò è avvenuto, per esempio, quando il primo movimento è giunto all’ultima battuta e, senza soluzione di continuità, subito si è acceso il primo fascio di luce del secondo movimento, con l’accordo dei fiati sospeso in rivolto verso il celebre Allegretto: la tensione del discorso musicale, così, raddoppia e lascia di sasso innanzi alla partitura già arcinota.
Più ordinario l’esito di un secondo appuntamento beethoveniano di Fisch al Comunale: le sei recite di Fidelio prudentemente anticipate rispetto all’indigestione del 2020 e applaudite dal 10 al 16 novembre. Allestimento proveniente dalla Staatsoper di Amburgo, con regìa di Georges Delnon, scene di Kaspar Zwimpfer e costumi di Lydia Kirchleitner: uno spettacolo pensato per il pubblico tedesco, dunque un po’ compiacente al Regietheather e più spesso limitato al didascalico di fatto purché non si rispetti la letterale didascalia; quel che è certo, in esso preme più riprodurre lo squallore di un contesto carcerario che rinnovare le riflessioni sull’uomo maturate lungo l’Illuminismo: riflessioni che gioverebbero al pubblico del secolo XXI non meno che a quello del XIX. Le maestranze del Comunale, impeccabili in sede concertistica, si limitano qui al buon mestiere, e l’esegesi stessa di Fisch pare non aver molto da aggiungere a quanto la tradizione ha consegnato di giusto o sbagliato. Sbagliato è – a volerlo dire – continuare a far affidamento, per quest’opera e per il Beethoven vocale in genere, su compagnie di canto dall’estrazione non proto-ottocentesca, post-mozartiana e quasi-rossiniana, bensì wagneriana e dunque stentorea, grossa, incline non a modulare con duttilità le delicate melodie bensì a ingolfarvisi per eccesso di peso specifico. Ciò tende ad accadere nel caso di Simone Schneider e Magdalena Anna Hofmann, i due soprani che nella parte di Leonore sguainano affilato metallo degno di Sieglinde; e ciò accade di certo in quello di Erin Caves e Daniel Frank, i due tenori che, come Florestan, hanno un punto debole proprio sul passaggio, dove si giocano le sorti tecniche della parte. Non si potrebbe trovare un basso più sostanzioso di Petri Lindroos per il paterno personaggio di Rocco, né un baritono meglio naturalizzato di Lucio Gallo, come Don Pizarro, all’idiomatismo del repertorio tedesco. Deliziosa per smalto e pathos la Marzelline di Christina Gansch: nelle intenzioni di Beethoven, la parte protagonistica avrebbe dovuto avere all’incirca questo calibro vocale, spinto alle estreme fatiche appunto per esaltarne la sovrumana vocazione eroica. La seconda Marzelline, Anna Maria Sarra, si iscrive a un più spensierato filone da soubrette, ma con impegno e adeguatezza non certo inferiori. Più irruente che innamorato lo Jaquino di Sascha Emanuel Kramer, e da tenere d’orecchio il Don Fernando dell’ancor giovane ma maturissimo Nicolò Donini. Quanto a Fisch, altri due titoli operistici lo rivedranno a Bologna l’anno prossimo: non il Tristan und Isolde inaugurale (affidato a Juraj Valčuha) ma gli altrettanto attesi Adriana Lecouvreur (in maggio, con Kristīne Opolais) e Otello (in novembre, con Gregory Kunde).