di Alberto Bosco foto © Xavier del Real
Al Teatro Real di Madrid continua con Die Walküre l’edizione completa della tetralogia di Wagner inauguratasi la scorsa stagione con la direzione da Pablo Heras-Casado e la regia di Robert Carsen. Il conosciuto allestimento del regista canadese, rinunciando all’ambientazione mitica e collocando la vicenda in un ambiente moderno sotto la minaccia di un’ecatombe naturale o militare, pone l’accento sui risvolti sociali e politici della saga wagneriana e instaura, come già nell’Oro del Reno, sin dall’inizio un senso di decadimento crepuscolare. Se è vero che questa impostazione può incorrere in contraddizioni non secondarie con le indicazioni sceniche, come per esempio nell’inno alla primavera del prim’atto, cantato quando fuori cadono i fiocchi di neve di un inverno che pare eterno, è anche vero che Die Walküre è già per buona parte un’opera del Wagner maturo, pessimista e folgorato dal messaggio di Schopenhauer, e che persino nell’Oro del Reno il senso del nulla aleggia qua e là, lasciando presagire poco di buono per il futuro. Piuttosto, il problema della regia, è che mette in secondo piano la psicologia, lo scavo nell’interiorità che nelle forme e nei simboli del mito è il centro pulsante della musica di Wagner, e ancor più in quest’opera che riduce l’azione al minimo e in cui i dilemmi interiori, in particolare quelli di Wotan, sono dipanati con estenuante precisione, e finiscono per fagocitare gran parte della realtà esteriore.
In linea con questa visione è apparsa la direzione musicale risolutamente estroversa di Heras-Casado, che ha privilegiato sonorità dissociate ed effetti isolati, come a creare un accompagnamento della vicenda messa in scena, e non al contrario, cioè una trama sinfonica continuamente animata da un flusso ininterrotto di sentimenti colti nella loro immediatezza di cui i cantanti in scena sono in un certo modo l’epifenomeno. Ad eccezione di alcune scene particolarmente riuscite per via della fascinazione timbrica (ad esempio l’incontro di Brunilde e Siegmund, o il finale), il resto della partitura è parso piuttosto sfilacciato, con i temi disinnescati della loro dirompente potenza espressiva e il discorso che stentava a infiammarsi e a farsi seguire con trasporto interiore. In un’opera narrativa e piena di avvenimenti ed effetti come L’oro del Reno, questo approccio può ancora funzionare, ma nella Valchiria, se nel fosso non si percepisce l’unità del sentimento e del dramma interiore che dà forma all’opera, allora ci si perde per strada, e intere mezze ore già difficili da digerire, come le capziose disquisizioni del second’atto, si fanno insopportabilmente pesanti.
Difficile valutare quindi i cantanti i quali, a differenza che in un’opera italiana, in Wagner da soli non possono cambiare più di tanto l’esito di una serata e sono quanto mai legati dal tessuto orchestrale. Nel complesso, tolta l’improbabile pronuncia del tenore e alcuni eccessi veristici nel canto di Sieglinde, il secondo cast, che ci è stato dato di ascoltare, è parso buono e all’altezza del compito, in particolare, si sono distinti Christopher Ventris come Siegmund e James Rutherford nei panni di Wotan.