di Luca Chierici foto © Hanninen
Il primo di sei concerti di una stagione autunnale della Filarmonica della Scala – rischioso oggi guardare più in là – si è distinto per un impaginato tutt’altro che consueto, senza per questo rinunciare alla felice comunicativa dei tre elementi presentati in programma da Riccardo Chailly. Era una scelta che metteva tra l’altro in risalto le componenti principali dell’orchestra, chiamate a presentarsi a volte a sezioni, come nel caso della Serenata op. 44 di Dvořák per fiati, violoncello e contrabbasso o nella sola componente degli archi (nell’Aria di Respighi e nell’Apollon Musagète di Stravinskij).
Una scelta quasi cameristica, che ha visto Chailly impegnato in una lettura minuziosa e allo stesso tempo estremamente partecipe del lavoro effettuato in comune con l’orchestra. E una relativa sorpresa per il pubblico, che ha seguito con interesse un programma composto da pagine non ascoltate di frequente. A partire dalla Serenata di Dvořák, meno nota dell’analogo lavoro opera 22 ma che appartiene sempre al primo, faticoso periodo dell’attività del compositore – siamo tra il 1875 e il 1878 – quando ancora il musicista si guadagnava da vivere come organista nella chiesa di S.Adalberto a Praga. Chailly ha sottolineato la coesione formale di questa partitura, mescolanza di elementi settecenteschi di derivazione mozartiana e haydniana e delle ben note influenze folcloristiche boeme, con risultati di un nitore eccezionale.
Né frequentemente proposte in concerto erano le musiche per il balletto Apollon Musagète in due quadri, scritto da Stravinskij su esplicita commissione da parte di Elizabeth Sprague Coolidge, una ricca patronessa americana a capo di una omonima Fondazione. Lo scopo era quello di produrre una partitura per balletto della durata di circa mezz’ora destinata al festival di musica contemporanea che si doveva tenere alla Library of Congress di Washington nella primavera del 1928. La ricompensa di soli 1000 dollari non fu di ostacolo all’inizio dei lavori che si prolungarono durante l’estate del ’27 a Echarvines, sul Lago di Annecy, dove Strawinskij si era trasferito con la famiglia, e ancora a Nizza nel successivo autunno. La partitura, ispirata al mito di Apollo e delle Muse, fu completata entro la fine di quell’anno ed eseguita come da programma a Washington il 27 aprile dell’anno successivo con le coreografie di Adolph Blom; di maggiore spicco fu la successiva rapprsentazione parigina del 12 giugno, affidata alle coreografie di Balanchine e alla direzione dell’autore. Chailly e i Filarmonici hanno navigato lungo i confini di una scrittura diatonica, spaziosa, così lontana dal primitivismo barbarico del Sacre du Printemps. Scrittura che in un certo senso giustificava l’ancor più elusiva scelta di un’Aria per archi scritta da Respighi nel 1901, a 22 anni, e solo di recente ripubblicata secondo la revisione di Salvatore Di Vittorio. Il pubblico, di questi tempi sempre più spaesato in un teatro immenso ridotto a un salotto per pochi intimi, ha tributato un convinto applauso a orchestra e direttore. Non sempre è necessario rivolgersi agli evergreen del repertorio per conquistare la fiducia dell’uditorio.