di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Seconda opera in forma di concerto in questa stagione autunnale scaligera che procede con i piedi di piombo, Aida ha riscosso un ampio successo che poggiava sulla qualità del cast, sulla superba concertazione e direzione di Chailly che guidava orchestra e coro finalmente ritornati agli standard di eccellenza che sono loro propri, e infine sulla sorpresa filologica che consisteva nel ritrovamento di una lunga sezione di apertura del terz’atto poi modificata dall’autore. La realizzazione in forma di concerto, non ancora arrivata alla soluzione che sarebbe più naturale (ossia i cantanti disposti tra orchestra e direttore, con l’assenza di movimenti scenici) era meglio riuscita rispetto a quella della recente Traviata in cui tutti si agitavano fin troppo ma seguendo sempre percorsi quasi orizzontali. L’assenza di movimenti scenici non significherebbe assolutamente assenza di partecipazione anche corporea da parte dei cantanti: è sufficiente un gesto della mano, un’espressione del viso per manifestare completa adesione a ciò che è scritto nella parte. Si ricordi cosa faceva la Freni nel «Libera me» del Requiem diretto da Abbado, quando le era sufficiente avanzare di un passo per accrescere a dismisura l’emozione di un canto e di una immedesimazione totale nel ruolo. L’altra sera non si sono resi necessari costumi di questo o quello stilista per attirare l’attenzione, e i movimenti e la disposizione dei cantanti hanno tutto sommato rispettato una compostezza sufficiente a suggerire ai pochi spettatori ignari se non la trama, almeno la tipologia drammaturgica di ciò che stava accadendo. L’unico appunto che si può muovere riguarda però la buffa situazione dell’arrivo del messaggero che deve comunicare agli astanti l’avanzata degli etiopi capitanati da Amonasro: di solito il messaggero arriva lercio, sudato, cencioso, con i vestiti a brandelli, mentre in questa disposizione il tenore era vestito di tutto punto con il frac di ordinanza. Altri tempi, ma meglio così che un futuro personaggio che comunicherà le notizie con telefonino e mail prioritarie, attraverso posta certificata e accesso con Spid.
Già che si è accennato al Requiem, conviene qui ricordare che la prima parte “a cappella” delle attese 108 battute appartenenti alla prima versione del terz’atto di Aida recentemente riscoperte ed eseguite l’altra sera, si appoggiano su quella sezione del futuro Requiem in cui il coro intona il «Te decet hymnus». Giustamente si sono scritte parole che ricordano come la successiva versione pensata da Verdi tolga questo inciso perché eccessivamente apparentato con l’estetica cattolica e la tradizione vocale palestriniana, mentre era intenzione del compositore se possibile mantenere un sapore melodico-orchestrale evocativo dell’antico Egitto. In realtà tutta la produzione verdiana a partire da una certa data in poi gioca assai spesso con gli stilemi del passato (si pensi al Quartetto per archi, a molti passaggi di Otello, alla conclusione fugata del Falstaff, ai Quattro pezzi sacri e così via) ed è pensata appunto secondo il dettame del «Torniamo all’antico». Quindi anche questo incipit sacro e ciò che lo sostituirà di lì a poco sono tutto sommato collocati in un ordine di pensiero comune. Manca certamente l’emozione dei “cieli azzurri” ed è questionabile la scelta di fondo nell’imporre questa prima versione nel contesto di una esecuzione “tradizionale” del titolo. Ma senza osare qualcosa di nuovo non si va da nessuna parte e allora ben venga anche questa opzione, oltretutto nata dai risultati della risoluzione di una spiacevole polemica attorno all’intoccabilità del lascito verdiano ancora inesplorato custodito dagli eredi.
Ma la serata ha raggiunto il risultato dell’ampio successo grazie sia al cast non certo indifferente, sia alla direzione di Chailly che ha saputo oltretutto trarre tutti i vantaggi possibili dell’esecuzione con l’orchestra bene in vista sul palcoscenico. Vantaggi che, detto in parole povere, consistono nel far risaltare i numerosi dettagli strumentali (ad esempio nelle danze!) che si perdono a causa del collocamento dell’orchestra in buca e all’appesantimento dell’acustica soprattutto quando si tratta di opere con scenografie zeppe di orpelli, tessuti, dettagli architettonici come è il caso di qualche notissima Aida scaligera. Una direzione scorrevole (l’esatto contrario di quella di Mehta in Traviata) che ha reso ancor più godibile la serata in mascherina e anche aiutato la performance dei cantanti tutti. L’applausometro finale ha decretato il successo massimo per l’Amneris della Rachvelisvili, imponente in tutti i sensi, a partire da una voce ampia, piena, risonante. A lei il merito di avere davvero interpretato una parte difficilissima tramite l’eccellenza delle doti vocali e lo studio del carattere del personaggio. Quasi a pari livello il Radames di Meli e l’Aida di Saioa Hernandez. Meli ha doti naturali non comuni e grande professionalità ma il suo canto raramente commuove e a volte ha fatto pensare ad altri tenori del passato più in linea sia col personaggio di Radames che con le mille sfumature di una vocalità impervia. Il ricordo di un Pavarotti che smorzava ad esempio la conclusione di «Celeste Aida» con il “trono vicino al sol” (che poi è un si bemolle) in diminuendo non è solamente un vezzo da ascoltatore incartapecorito. La Hernandez ha la tendenza a diminuire la qualità dell’emissione in vista di passaggi particolarmente concitati (come in “sì fuggiamo”), è parsa affaticata nel terz’atto ma si è ripresa bene nell’ultimo, e complessivamente ha retto egregiamente le difficoltà del suo ruolo davvero impegnativo, pur con una messa a fuoco non perfetta dei risvolti psicologici del personaggio. Di grande rilievo i cantanti impegnati nei ruoli a latere: eccezionale il Ramfis del basso coreano Jongmin Park, dotato di mezzi vocali naturali di primissimo piano, un vero e proprio strumento, e di carattere in perfetta sintonia con il ruolo, e notevole l’Amonasro di Amartuvshin Enkhbat. In linea con le aspettative il soprano Chiara Isotton (Sacerdotessa cui mancava però il contorno scenico nell’ultimo atto), Roberto Tagliavini (il Re) e l’elegantissimo messaggero Francesco Pittari.
Tra il pubblico vi era ancora qualche anima buona che applaudiva rumorosamente all’accordo di settima di dominante di “Guerra!” prima della ripetizione risolutiva del «Ritorna vincitor».