di Luca Chierici
Molto noto da noi per il suo lungo incarico come Direttore principale dei complessi della Rai, e oggi nelle vesti di Direttore musicale del San Carlo, Juraj Valčuha era l’altra sera al suo secondo concerto con la Filarmonica della Scala. Il debutto del quarantacinquenne direttore slovacco nella sala del Piermarini era in realtà avvenuto nel 2013 e bene ha fatto l’orchestra a chiamarlo nuovamente sul podio.
Perché Valčuha è indubbiamente un direttore di razza, con un gesto chiaro e capace di coinvolgere gli strumentisti come se stabilisse con loro un rapporto uno-a-uno, e con la capacità di analisi minuziosa di partiture anche molto complesse. Come lo erano, per motivi differenti, le due affrontate in un programma che aveva come denominatore comune l’appartenenza degli autori all’area sovietica. Senza entrare nel merito della annosa questione relativa ai rapporti tra gli autori più in vista nella Russia post-rivoluzionaria e un regime che non andava molto per il sottile nel tenere sotto controllo le velleità libertarie dei suoi musicisti, le personalità tirate in causa l’altra sera si collocavano su fronti opposti e hanno contribuito in maniera sostanzialmente diversa allo sviluppo del linguaggio novecentesco.
Il Concerto per violino e orchestra del georgiano Aram Chačaturjan è un vero e proprio tour de force per il solista che ne affronta le notevoli difficoltà, così come accadde nel 1940 al primo interprete nonché dedicatario, il leggendario David Oistrach. Il protagonista che ha lavorato splendidamente a fianco di Valčuha, l’eccellente Valeryi Sokolov, ha affrontato da par suo questo lavoro indubbiamente felice per ciò che riguarda il trattamento di temi popolari e la maestria della scrittura violinistica. Sokolov esibisce un suono pieno, di grande intensità, cosa rara in un’epoca nella quale siamo abituati ad ascoltare solisti musicalmente ineccepibili quanto poco dotati sotto quel punto di vista, e ha dato tutto se stesso senza un secondo di sosta navigando con mano sicura in una partitura di oltre mezz’ora che non dà tregua a colpi di doppie note, salti, passaggi di agilità di ogni genere. E come se non bastasse si è anche sobbarcato un bis altrettanto tecnicamente vertiginoso, la terza delle sei sonate di Ysaÿe.
Successo pieno, c’era da aspettarselo, da parte di un pubblico che non affollava la sala ma che era comunque attento allo svolgersi di una serata non facilissima, soprattutto per ciò che riguardava l’enigmatica prima Sinfonia di Šostakovič, straordinaria prova finale di un diciannovenne allievo del Conservatorio di San Pietroburgo. Qui i Filarmonici hanno dato prova di eccellenza nel seguire le divagazioni strumentali del giovane compositore – in realtà la sinfonia sottintende una costruzione di livello ben superiore al Concerto appena ascoltato – pur guidati da Valčuha con cura amorevole del dettaglio e precisione degli attacchi. Una serata dai contenuti insoliti che ha avuto anche il merito di indurre il pubblico a una sorta di riflessione attorno a una delle direttrici dello sviluppo musicale nel secolo passato.