di Luca Chierici
Con Un ballo in maschera e prossimamente con La Gioconda, la Scala attinge a due titoli di sicura presa sul pubblico, che vantano una tradizione esecutiva di spicco e che rappresentano un caso di record di recite non indifferente nella programmazione del teatro.
Forse il Ballo contiene, tra tutti i capolavori verdiani, la più ammirevole sequenza di motivi che fanno presa indelebile sull’immaginario (operistico) collettivo. E fin dall’inizio lo spettatore rimane letteralmente schiacciato dalla bellezza delle arie e dei pezzi d’assieme che non danno tregua neppure al più appassionato dei sostenitori del nostro musicista. Verrebbe quasi da dire che l’interpretazione di tutto questo ben di Dio è affare secondario, se non fosse che la tradizione interpretativa del Ballo è tale e di tale portata da obbligarci a un ascolto analitico che vive poi sui confronti, sulle preferenze che porterebbero al concetto di esecuzione “ideale”. Da questo punto di vista ci sembra che gli aspetti stilistici che si riferiscono a questo titolo difficilmente possano essere correlati a una evoluzione nel tempo: la vocalità e la puntualizzazione della psicologia dei caratteri principali non si sono tutto sommato molto allontanati dalle linee guida degli esordi (1859) e diciamo pure che oggi si tende a realizzare, sia pure con i criteri attuali, una rilettura di una tradizione considerata inattaccabile. E non si poteva chiedere di più, nel 2022, al cast di questo Ballo, nel quale brillavano almeno i protagonisti maschili. A Francesco Meli, non si sa il perché, è stato negato il primo applauso dopo il «La rivedrà nell’estasi», di esecuzione pura e vibrante, ma il tenore si è rifatto al termine degli altri suoi interventi più importanti, compreso il duetto «O qual soave brivido» fino al «Sì, rivederti Amelia». Meli va al di là del puro canto comunicando l’intelligenza del fraseggio e la comprensione del ruolo tanto da rendere più che credibile la trasformazione dall’iniziale perentorietà di accenti al pur virile passaggio alla morte. Luca Salsi è come al solito addirittura troppo sicuro di sé e talmente nella parte da meritare l’applauso del pubblico fin dal suo «Alla vita che t’arride». Anche per lui vale il perfetto dominio del ruolo, con un carattere che si trasforma in senso inverso tranne ritornare poi nel finale agli affetti di apertura nei confronti del suo Governatore. Meno pregevole, anche se di lusso, era la Amelia di Sondra Radvanovsky, forse un poco troppo “gridata” e con il vezzo poco felice di attaccare in pianissimo certe emissioni, che poi sfociavano immediatamente in un fortissimo esagerato senza passare gradatamente da un estremo all’altro. Non particolarmente fedele in termini di pronuncia, il soprano ha comunque retto con onore la propria parte, riscuotendo un notevole successo soprattutto nella prima fase dell’atto secondo. Il ruolo di Oscar ha da sempre attirato critiche relative a un forzato lato caricaturale del ruolo e in tal senso la prestazione di Federica Guida ha fatto rimpiangere la compostezza di certi esempi del passato più o meno recente. Ulrica non propositiva di nuove vedute ma a suo modo autorevole era Yulia Matochkina che si sarebbe voluta apprezzare anche in costumi meno deprimenti di quelli a lei riservati. Buoni i comprimari tranne che nel caso di un Silvano decisamente fuori posto.
Assente Chailly, ci si è accontentati della concertazione e direzione di Nicola Luisotti, che non convinceva all’inizio con il poco sottolineato carattere del pizzicato degli archi e che in seguito percorreva i binari sicuri della tradizione puntando più sull’enfasi barricadiera che sul gioco dei contrasti e sull’interiorità di certi luoghi famosi. Il coro regge in quest’opera una parte fondamentale, che è stata brillantemente affrontata sotto la guida di Alberto Malazzi.
Alquanto infelice è sembrato però l’allestimento, con una regìa banale fin nelle presunte ricercatezze e un dispiego di scene le cui peculiarità erano spesso intelligibili solamente andando ad esaminare le specifiche del programma di sala, contenente puntuali dichiarazioni di Marco Arturo Marelli, responsabile appunto di regìa, scene e costumi. Secondo Marelli la dimensione scenica punta su “uno spazio che si restringe in maniera fortemente prospettica e che nel fondo conduce al nulla, alla nera oscurità” e l’antro della maga Ulrica diventa “una grande roccia” che secondo Hölderlin rappresenta il Destino. In realtà la riproposta delle immagini del teatro visto in tutte le angolazioni e miniaturizzazioni possibili, le mezze luci in sala che ricordiamo almeno fin dai tempi di Strehler, peccati mortali tipo il coro che zampetta al ritmo di “incogniti alle tre” e lo stesso macigno che giganteggia nell’atto secondo non sono stati certo elementi memorabili per una produzione che si rispetti.
Ma il successo di pubblico è stato tale da non ammettere neanche il minimo dissenso relativo a questa componente visiva oggi irrinunciabile. Tanto da far pensare che l’aspetto puramente musicale avesse in ogni modo relegato in secondo piano qualsiasi altra considerazione sullo spettacolo. E che sul versante scenico il pubblico dimostri spesso una tendenza piuttosto preoccupante al consenso indiscriminato.