di Attilio Piovano
Molti gli eventi di spicco – dopo il trionfo della serata inaugurale («Luci immaginarie»), recensita su queste stesse colonne – entro la ricca edizione 2022 del Festival MiTo intitolato quest’anno «Luci» con segno bene augurale, intendendo declinare in svariate modalità l’idea appunto della luminosità grazie ai pentagrammi.
Impossibile rendere conto, in uno spazio contenuto, della variegata complessità di un cartellone che spazia dal Barocco alla Contemporanea, dalla musica cameristica a quella sacra, dal sinfonico ai recital solistici; e che prevede mediamente tre concerti al giorno (di norma uno pomeridiano e due serali, in svariate sedi anche decentrate), in un periodo compreso tra il 5 e il 24 settembre per un totale di oltre 50 appuntamenti a Torino, e altrettanti (omologhi) a Milano. Tra i molti concerti seguiti, sul versante torinese, e che hanno visto, finalmente, dopo il buio della pandemia, un notevole afflusso di pubblico, ne abbiamo prescelti alcuni; ecco dunque qualche appunto dal nostro fitto diario di bordo.
Sostituzione di lusso, la sera del 6 in Conservatorio, dell’indisposto Pogorelich al quale è subentrato l’ensemble Modo Antiquo guidato dal versatile fuoriclasse Federico Maria Sardelli: direttore, saggista, studioso del repertorio barocco, specie vivaldiano e molto altro ancora. E dunque tutto sul versante della musica strumentale del Prete Rosso, il concerto stesso («Vivaldi segreto») che annoverava non poche pagine ‘ricostruite’ da Sardelli medesimo, con gusto e rispetto filologico. e si trattava dei Concerti RV 808, 818 e 775 concepiti per la mitica violinista prediletta da Vivaldi (la famigerata, poli strumentista e non meglio conosciuta ‘Signora Annamaria’, cresciuta nel vivaio delle orfanelle della Pietà). Brillantezza di suono, bei fraseggi e coesione sono sono alcune delle qualità caratterizzanti l’ensemble Modo Antiquo, entro il quale occorre evidenziare senz’altro la bravura di Federico Guglielmo (violino principale) e dell’ottima organista Giulia Nuti, impegnata in funzione concertante nelle pagine proposte. Di grande valentìa poi anche la violoncellista Bettina Hoffmann (solista nella Sonata da chiesa RV 820), come del resto tutti i restanti componenti. Grandi emozioni altresì con il celeberrimo Concerto ‘Madrigalesco’ RV 129 e con la Sinfonia ‘Al Santo Sepolcro’ cupamente lugubre, tutte pagine delle quali Sardelli ha illustrato genesi e aneddoti ad esse legate, dirigendole con precisione e nel contempo con arguzia. Il clou della serata con un breve hommage polifonico a Vivaldi composto da Sardelli medesimo: perfetto calco stilistico, insomma seducente remake, scritto nello stile di Vivaldi, segno di grande cultura e profonda consuetudine con le maniere del Prete Rosso. Se Sardelli, con simpatica onestà intellettuale non lo dichiarasse parto della sua creatività, sarebbe da considerarsi un fascinoso ‘falso’ d’autore. Applausi scroscianti, un vero e proprio trionfo.
A Pietro De Maria la sera del 7, presso l’Auditorium del Grattacielo di Intesa SanPaolo dall’ottima acustica (ancorché piuttosto ‘secca’), l’onere e l’onore di inaugurare la succulenta rassegna di recital pianistici, con la sublime silloge delle Variazioni Goldberg. Delle quali il pianista ha offerto una lettura concentratissima e intimista, sobria ed elegante, scevra di esasperati compiacimenti ed esibito virtuosismo e pur ricca di appeal che, non a caso, ha conquistato fin dalle primissime misure. Tecnicamente impeccabile, suonando per intero a memoria, e non è cosa da poco data la complessità contrappuntistica dell’opera, vero e proprio monumentum e compendio di polifonica scientia, De Maria ha proposto una lettura per così dire pienamente ‘pianistica’; un’interpretazione colta e sagace – la sua – dunque attenta a sfruttare le mille potenzialità timbriche e dinamiche dello strumento, agli antipodi dunque di certe esecuzioni che, rinunciando invece alle peculiarità del pianoforte e intendendo ‘mimare’ l’arcaico clavicembalo, risultano di fatto inutili se non irritanti. Ammirevoli l’uso parsimonioso, ma efficace del pedale, la padronanza assoluta del tocco, volto a porre in luce le singole linee polifoniche, lo stacco sempre appropriato dei tempi, brillanti quando occorre e pacati per le variazioni più intrise di pathos ed espressività, e ancora: la nitida chiarezza dei fraseggi e la varietà degli abbellimenti posti in atto con apodittica limpidità nei ritornelli. Sicché la sintesi realizzata da Bach che, componendo le Goldberg guardava all’universo italiano come a quello francese di un Couperin e così pure alle austerità nordiche, è apparsa in tutta la sua indicibile bellezza, senza nulla concedere al facile effettismo, insomma una vera lezione di stile. Graditissimo bisil notisismo Corale “Jesus Bleibet Meine Freude” dalla Cantata BWV 147 che con le sue cullanti frasi, la sua delicatezza e la sua sognante dolcezza ben si saldava al tema teneramente affettuoso su cui è intessuto l’intero edificio delle Goldberg. Non solo: estrema raffinatezza, che gli addetti ai lavori hanno colto, il fatto che il Corale sia nella medesima tonalità di sol maggiore accentuava ulteriormente la parentela espressiva con il tema, propiziando il silenzio ed il riposo.
A seguire, nel corso del festival, vere e proprie monografie dedicate a Schubert, Skrjabin e Schumann a cura di Filippo Gorini, Mariangela Vacatello e Davide Cabassi, poi a Čajkovskij (Benedetto Lupo), Debussy (Emanuele Arciuli), Brahms (Filippo Gamba), Mendelssohn (Roberto Prosseda), e ancora il raro Granados, Mozart Rachmaninov, Liszt, Chopin e Beethoven con Viviana Saracina, Gianluca Cascioli, Alessandro Taverna, Maurizio Baglini, Gloria Campaner e Andrea Lucchesini.
Un plauso all’OSNRai («Luci Fantastiche» Auditorium ‘Toscanini’ la sera del 9) per l’altisonante interpretazione della pletorica (e pur superba) «Sinfonia Fantastica» del geniale Berlioz che è sempre un piacere ritrovare, direttore Roberto Trevino che ne ha ben colto l’esprit. Molta souplesse nel primo e secondo movimento, bene i fiati e molti dettagli nel terzo, ma è soprattutto nel finale, dopo i brividi della Marcia al supplizio, che l’orchestra ha superato se stessa. Un poco anodino, invece, ed eccessivamente ripetitivo (con quell’insistito e molto minimal re minore) The wonder of life in prima italiana del pur valido Régis Campo, nonostante certi guizzi, una invero apprezzabile e singolare vis ritmica assai propulsiva, colori scintillanti e, qua e là, alcune non spregevoli sorprese come quell’unica cesura netta che ricorda Barber e il suo celebre Adagio, e ancora un incipit e un epilogo simmetrici . Ma è anche tutto.
Restando sul versante sinfonico da registrare una (invero non memorabile) beethoveniana Nona il 19 al Lingotto («Lampi assoluti»), con l’Orchestra Sinfonica di Milano diretta da Patrick Fournillier per lo più con burocratica correttezza (ci si aspettava qualche emozione in più). Ad affiancare la compagine, il Coro del Regio di Torino che ha fornito, invece, un’ottima prova (omogenei i quattro solisti). Poco entusiasmo da parte del pubblico per il dispersivo Abosolute Jest di John Adams, infarcito di citazioni beethoveniane, dilaganti in un magma dispersivo e dilatato, mediamente stucchevole, sia pure con qualche occasionale e improvvisa alzata d’ingegno. Vive emozioni con la sempre magnifica Maria João Pires per la sua toccante interpretazione del Terzo Concerto pianistico di Beethoven con la pirotecnica Orchestra Giovanile dello Stato di Bahia («Luci brasiliane») diretta da Ricardo Castro (che ha poi proposto Grieg quale bis – Danza di Anìtra dal Peer Gynt – sedendo accanto alla pianista portoghese). Non è mancata la sorpresa del berimbau, suonato dal percussionista e performer Raysson Lima che ha regalato momenti di puro divertissement, In apertura la chiassosa e spettacolare Ouverture dal Guarany di Gomez, striata di temi ‘verdiani’ e ondate ‘wagneriane’, con quei suoi tratti un po’ kitsch parsi ancora più esasperati dagli iper cinetici strumentisti carioca che hanno stupito infine con Nimrod, quale bis, dopo Villa Lobos, fiondandosi infine nei loro tradizionali bis impregnati di energia ritmica, in un clima di festa folkloristica e un filino scomposta che finisce immancabilmente per coinvolgere tutto il pubblico.
Toccante, in San Filippo, la bachiana Messa in si minore interpretata con filologica e magistrale efficacia da Orchestra e Coro laBarocca («Cielo»)per la superba direzione di Ruben Jais che ha saputo porre a reagire sapientemente gli sfolgoranti passaggi quasi haendeliani (per dire, il giubilante Gloria) con passi intimistici quali il Laudamus, il Qui tollis o il conclusivo e rasserenato Dona nobis pacem staccato con apprezzabile scioltezza. Uno speciale plauso a Federico Fiorio (sopranista) e Filippo Mineccia (contraltista) nonché a Luca Scaccabarozzi per la puntuale direzione corale. Così pure, davvero memorabile il recital dell’Amsterdam Baroque Orchestra guidata dal validissimo Ton Koopman tutto sul versante del Kantor («I prismi mobili di Bach», la sera del 13 in Conservatorio, superbo il fagotto di Wouter Verschuren). Parzialmente deludente, invece, dacché per lo più priva di tensione, la «Quarta» di Mahler proposta al Lingotto («Luci celesti» la sera del 17) dall’Accademia di Santa Cecilia alla quale Barbara Hannigan – gesto singolare, ma non del tutto efficace – ha impresso tempi inediti, non sempre convincenti (quasi provocatorio l’attacco, bene tuttavia l’estenuazione del tempo centrale. Ruhevoll), producendosi poi anche come voce solista nella onirica sezione finale («La vita celestiale»).E dire che aveva fatto ben sperare dirigendo con appropriatezza di stile la Sinfonia n. 96 di ‘papà’ Haydn, in bilico tra Rococò ed avvisaglie pre Sturm und Drang (emozioni nel bonario Minuetto e così pure nell’arguto Finale in punta d’arco). Ma a dirigere Mahler ci vuol ben altro.
Variegati i registri espressivi posti in atto dal fuoriclasse Ian Bostridge nella superlativa silloge Les illuminations di Britten su testi di Rimbaud: dall’icastica Fanfare iniziale all’animatissimo Villes, poi ecco gli armonici degli archi nella breve terza sezione, il melodioso Antique e la luminosa ironia di Royauté (prossimo al Prokof’ev della Classica) giù giù sino al grottesco Parade e all’onirico conclusivo Départ. Un capolavoro assoluto restituito al meglio da un tenore di assoluta bravura., affiancato dall’OFT che, sotto la guida eccessivamente esuberante di Pretto, ha sfoderato un suono talora un po’ aspro e sopra le righe (specie nel successivo Souvenir de Florence).
Gran finale il 23 ancora al Lingotto con Ravel e Gershwin (Boléro ed Americano a Parigi) posti efficacemente a reagire da Stanislav Kochanovsky alla guida dell’Orchestra del Regio e inframmezzati dal raffinato Debussy de La Mer; poi il 24, nel segno di Mozart con ben due Concerti pianistici (il K 482 ed il pre romantico K 491) affidati alle mani sapienti del fuoriclasse Leif Ove Andsnes unitamente alla blasonata Mahler Chamber Orchestra. A centro serata, la Sinfonia ‘Praga’. Non si poteva desiderare chiusura migliore.