di Luca Chierici
Tra I massimi direttori del nostro tempo, Christian Thielemann è stato ospitato dalla Scala con la propria orchestra di Dresda per un doppio appuntamento concentrato sui nomi di Bruckner e Beethoven, con il risultato di un più che atteso successo che ha portato il pubblico presente a un vero e proprio entusiasmo.
Siamo sempre alle solite: orchestre straniere particolarmente note per il loro “sound”, e diciamo pure per un volume di suono che non è proprio di quelle italiane, ci mettono in grado di sfatare il mito di sale poco adatte, a volte quasi “sorde” o piene di effetti di eco come è quella della Scala. Quando si tratta di orchestre come quella di queste sere o, nel passato, dei Wiener, dei Berliner o dell’Orchestra di Chicago, per miracolo gli impedimenti sonori svaniscono. Forse fin troppo, perché non si può certo dire che Thielemann e i suoi giochino al risparmio, con il pericolo di accentuare fin troppo il mezzo sonoro. È accaduto in parte con Bruckner e anche con Beethoven, penalizzati un poco con secco rullare di timpani e smagliante incedere degli ottoni. Ma tutto sommato meglio così rispetto alle spesso lagnanti dinamiche di altri complessi che suonano secondo i dogmi oggi di moda dello “storicamente informato”. Si ricorda a questo proposito quanto l’ultimo Karajan facesse apposta a sovrastare solisti e cantanti o a mettere in risalto voci secondarie per il puro gusto di fare udire particolari da altri poco o per nulla notati o volutamente sottaciuti.
La Quinta sinfonia di Bruckner non è tra le più note, o meglio non è così nota come la Settima, l’Ottava, la Quarta. Più che per un palese contenuto melodico, questa grandiosa sinfonia è da riguardarsi sotto l’aspetto contrappuntistico e per l’uso reiterato di moduli tipici del comporre bruckneriano, di collegamenti e passaggi che potrebbero erroneamente essere considerati come “catene armoniche”, delle cosiddette rosalie, di uso fin troppo ripetitivo. In questi casi non c’è peggiore scelta che giocare all’understatement e occultare particolari che è molto meglio portare allo scoperto. Da questo punto di vista la lettura di Thielemann è stata di proverbiale saggezza e ha aiutato l’ascoltatore a districarsi all’interno di un linguaggio a volte ripetitivo o di astratta configurazione contrappuntistica, soprattutto nel grande Finale.
Se in Bruckner vi è stata qualche piccola defaillance negli ottoni – qualche piccolo errore, trascurabile per un’orchestra provata da un viaggio in tournée – la serata beethoveniana è stata perfetta anche sotto questo punto di vista, ammesso che si accetti una lettura condotta spesso con una libertà di fraseggio che ha sconvolto alcuni puristi ma che costituiva la normalità nei bei tempi andati. Per una volta abbiamo quindi goduto di una esecuzione molto personale – l’Ottava sinfonia ancor meglio della Settima – da parte di chi oggi non ha vivaddio paura di andare contro corrente rispetto a una non bene identificata prassi esecutiva “corretta” quanto spesso pedante.