di Gianluigi Mattietti
È stata accolta con grade successo a Bregenz l’Armida di Haydn, la sua unica opera seria (definita un «dramma eroico»), e una rarità sui palcoscenici lirici.
Nel libretto, il soggetto tassesco si focalizza sui contrasti interiori tra Armida e Rinaldo nel momento in cui i due sono già uniti nel palazzo incantato, con l’eroe già irretito dal sortilegio, e con la maga e Zelmira che invece di usare le loro arti magiche contro i cavalieri crociati se ne innamorano. Nelle mani di Haydn, il modello metastasiano si trasforma in una drammaturgia piuttosto originale, quasi priva di azione, sospesa, tutta incentrata sui tentennamenti di Rinaldo, capace di cogliere bene i tormenti identitari e amorosi dei vari personaggi. Per ottenere questo, il compositore rompe l’alternanza di recitativo e aria, sfumandone i contorni, ricorrendo spesso a recitativi accompagnati, modellando nuove forme per le arie per creare scene di ampie dimensioni.
Il regista Jörg Lichtenstein ha affrontato questa materia teatrale con grande libertà, mescolando elementi storici, sentimentali e fantasy, con un approccio fresco e idee originali, di lettura immediata, grazie anche alle scene modulari e ai variopinti costumi di Nikolaus Webern. La vicenda si apriva nel presente, in una polverosa soffitta, tra ragazzi che tracannano birre e si divertivano a tirare fuori da armadi e cassapanche vecchi vestiti e armi giocattolo. Così, lentamente, quasi per magia, quel mondo scanzonato si trasformava nel magico mondo di Armida, quei ragazzi diventavano i protagonisti dell’opera, mentre accadevano strani eventi, tra oggetti che si muovevano, mappamondi che lampeggiavano, pergamene che si srotolavano, un ritratto di Haydn che cominciava a ruotare. Un armadio di quella soffitta diventava porta di passaggio verso il mondo esterno, oppure si apriva e mostrava al suo interno musicisti intenti a suonare una marcia; una vecchia radio diventava parte dell’accompagnamento orchestrale; il tetto si sollevava e la sua impalcatura diventava una scala praticabile (come la ripida montagna con fortezza di Armida), trasformando la soffitta in una tenda saracena con tappeti e divani; vi spuntava un albero e diventava il boschetto magico del terzo atto. Geniale la scena, nel boschetto, in cui Zelmira tentava di convincere Rinaldo a tornare da Armida (aria «Torna pure al caro bene»): l’eroe appariva circondato da tutti i cantanti travestiti da ninfe, in pepli bianchi e con lunghi capelli biondi, che si passavano spinelli con gesti “en ralenti”, in un’atmosfera spassosamente allucinata. Tutto nella regia si dipanava con gioiosa facilità, e anche una vicenda così statica si animava di sottigliezze caratteriali, ammiccamenti e amoreggiamenti che tenevano sempre desta l’attenzione.
Al successo dello spettacolo hanno contribuito anche le eccellenti voci dei giovani cantanti dell’Opera Studio, ottimamente calati nella dimensione magico-ironica creata da Lichtenstein: il soprano svizzero Nicole Wacker era un’Armida di grande carattere, ma a impressionare è stato soprattutto il tenore anglo-tedesco Kieran Carrel nei panni di Rinaldo, per la sua voce potente, duttile, sempre espressiva, con magnifiche messe di voce. Un nome da annotare. Spiccava anche la Zelmira di Kathrin Hottiger, agile e sicura, con un perfetto controllo del fiato, acuti sempre a fuoco, bravissima nel cogliere con ironia la doppia natura del suo personaggio, fanciulla ingenua e donna smaliziata. Jonathan Brandani, sul podio dell’Orchestra sinfonica del Vorarlberg, dipanava le trame orchestrali mantenendo sempre alta le tensione, con una forte propulsione ritmica anche nei lungi recitativi accompagnati, cogliendo il carattere parlante dell’orchestra, sottolineando i momenti narrativi e atmosferici dell’orchestrazione, con risultati quasi “olfattivi” nelle scene bucoliche.
Mentre Armida incantava crociati e pubblico al Theater am Kornmarkt, Andreas Homoki raccontava la sua Butterfly nell’imponente scenario della Seebühne attraverso un enorme foglio bianco che si innalzava per oltre venti metri e discendeva ondulato verso il pubblico, che appariva leggerissimo e sembrava galleggiare sul Lago di Costanza (ma pesava 300 tonnellate e aveva una superficie di 1340 metri quadrati). Questo foglio, sul quale delicate pennellate d’inchiostro suggerivano delle case, degli alberi, un porto, veniva trafitto da un enorme pennone con la bandiera americana. E già questo impianto scenico riassumeva concettualmente tutta la vicenda. Ma l’idea più originale e toccante dello spettacolo era la presenza di geishe mascherate di bianco, come sorelle spirituali di Cio-Cio-San, che eseguivano lente e spettrali pantomime (simili a danze butō) suggerendo nel corso di tutta la vicenda una realtà parallela, onirica, gravida di cupi presagi. La Cio-Cio-San di Elena Guseva si muoveva in quell’ampio spazio con gesti esitanti, di grande forza espressiva, sfoggiando una voce potente e tenera, solo con qualche sfocatura negli acuti. Voce solida quella di Pinkerton, interpretato da Łukasz Załęski. Claudia Huckle era una Suzuki dal timbro scuro, che contrastava assai bene con quello di Butterfly, ma le dava anche un carattere un po’ “agé”. La direzione di Yi-Chen Lin, che sostituiva Enrique Mazzola sul podio dei Wiener Symphoniker, coglieva anche le minime sfumature della partitura, in uno spettacolo dove voci e orchestra si ascoltavano, sorprendentemente, come se non fossero amplificate, con un suono naturale e ricco di dettagli.