di Attilio Piovano
Gran bel concerto, quello offerto dalla Cziffra Festival Chamber Orchestra (festival volto a celebrare il grande pianista György Cziffra del quale nel 2021 si è celebrato il centenario della nascita) con la presenza di lusso alla tastiera di János Balázs: a Torino, per i concerti di Lingotto Musica, la sera di martedì 22 novembre 2022.
Ed è stata una bella sorpresa imbattersi in un ensemble cameristico formato da una ventina di giovani, dal suono talora ancora un po’ aspro, ma dotata di un invidiabile vitalismo. Così come grande è stata la sorpresa di vedere dirigere l’esuberante Gábor Takács-Nagy – gesto molto espressivo, contagiosa cordialità comunicativa – considerato (ci vien da dire, a buon diritto) uno dei «più autentici interpreti della musica ungherese, e in particolare delle opere di Bartók». Sicché non stupisce che il musicista – bandito ogni velo di accademismo, a partire dall’abolizione significativa della bacchetta d’ordinanza – abbia deciso di incorniciare il programma nel segno del sommo autore del Mandarino meraviglioso. E allora ecco in apertura le superbe e sempre verdi Danze popolari rumene delle quali il direttore ungherese ha perfettamente colto l’esprit, quel singolare mix di carica energetica e languore tipicamente balcanico, che le caratterizza, affrontate con sciolta souplesse, scorrevolezza e profondità, al tempo stesso, restituendone per intero la singolare fragranza impregnata di folklore magiaro. Ben assecondato dalla formazione che avrà di certo modo di crescere ulteriormente e di affinarsi.

In chiusura, poi, il superbo ed alquanto più avanzato, sotto il profilo linguistico, Divertimento per archi composto nel 1939. Pagina della quale Takács-Nagy – grande attenzione alle dinamiche, come pure ai sapidi spostamenti d’accento e all’incisività ritmica – ha fornito una coinvolgente lettura, imprimendo il giusto ‘suono’ fin dall’Allegro d’esordio dalle atmosfere grottesche ed angolose, talora acuminate come stalattiti. Poi il clima cupo e funereo dell’Adagio dalla caratteristica struttura ‘a ponte’ peculiare di Bartók, pagina che a tratti si fa vibrante, per poi richiudersi a valva, dopo aver raggiunto il climax. Da ultimo l’esacerbata vigoria del finale, incandescente e trascinante, ricco d’appeal con i suoi spunti fugati e molto altro ancora: finale suggellato da una corsa sfrenata a briglie sciolte. Irresistibile.
A centro serata Liszt e la prova fornita dal pianista János Balázs, vero e proprio virtuoso, tecnica solidissima e (quasi) infallibile suono per lo più granitico, dita d’acciaio e tocco muscoloso, un range dinamico assai vario, atletismo quod satis, ovvero quel tanto di esibito e plateale funambolismo che pure in Liszt è elemento irrinunciabile: già perché è con l’enfatico Primo Concerto dell’autore di Mazeppa dall’icastico e memorabile incipit che il pianista si è confrontato. Ammirato, invero, non solo per il mulinare delle ottave e il suono massivo, laddove faceva ruggire i bassi con sonorità percussive e, a tratti – sia concesso – un filino esagerate, ma anche nei passaggi iridescenti e perlacei, quelli più prossimi al Liszt (ben altrimenti profondo e poetico) delle Années de pèlérinage, e lo si è ammirato nella delicatezza di certi trilli, più ancora nell’uso sagace del pedale, in certe combinazioni di pedale di sinistra e pedale di risonanza, che conferivano un colore magico ai passaggi via via sciorinati. Il suo cantabile tradisce, peraltro, un certo nervosismo, una certa – come dire – impazienza di fiondarsi nei passi d’agilità con esuberanza talora eccessiva (e finiva per correre un pochino, anticipando l’orchestra). Si sarebbe voluto poi qualche indugio maggiore e dinamiche più rarefatte nella parte acuta della tastiera. Ma si sa che questo Liszt è così che i virtuosi lo intendono e, a ben guardare è così che il pubblico lo ama. Con il solista sempre in equilibrio sulla corda come un trapezista, privo di rete, il pianoforte che romba come un dodici cilindri spesso spinto nella zona rossa del contagiri. Bis virtuosistico ancora nel nome di Liszt con la Sesta rapsodia ungherese.
Francamente… insopportabile (o quasi) la versione per pianoforte e orchestra a cura di Rezsö Ott della Rapsodia Ungherese n. 14, ovvero la Fantasia su temi popolari ungheresi S. 123 dall’effettismo esasperato e circense, spesso prossimo al kitsch. Ma si sa, Liszt è così: prendere o lasciare. E se s’ha da proporlo, allora è con pianisti della natura di János Balázs, che occorre ascoltarlo. Applausi scroscianti e moltissimi i giovani in sala (fa piacere rilevarlo) non solo allievi del conservatorio, ma anche di Università e Licei. un bel segno frutto del lavoro strenuo e mirato da parte della Comunicazione del Lingotto, orientata lodevolmente a ‘formare’ il pubblico futuro.