di Attilio Piovano
Spettacolo davvero eccellente, di altissima qualità, sotto tutti i punti di vista: il mozartiano Don Giovanni al Regio di Torino, in scena la sera di venerdì 18 novembre 2022. Attesissimo evento, per la presenza sul podio di Riccardo Muti che, dopo aver diretto lo scorso anno Così fan tutte, affronta il secondo titolo della trilogia italiana: chissà che in futuro ‘completi’ il trittico dovuto alla genialità di Mozart e Da Ponte con Le nozze di Figaro.
E si è trattato di un nuovo, fascinoso allestimento del Regio in coproduzione con il Massimo di Palermo ed il sostegno di Reale Mutua. Spettacolo di grande eleganza e di forte impatto emotivo che, non a caso, a fine serata è stato salutato da protratti e scroscianti applausi: al Maestro innanzitutto, ammirato per la profondità della sua interpretazione oltre che per aver posto in luce una quantità incredibile di dettagli insiti nella partitura, ma di solito trascurati; alla regista Chiara Muti, per la sua ‘lettura’ davvero suggestiva – in senso etimologico – ovvero atta a ‘suggerire’ e talora amplificare con palpabile evidenza ogni più recondito aspetto del libretto dapontiano; al cast che definire stellare può sembrare un’abusata espressione giornalistica, ma invero di una compagnia di solisti di enorme valore si è trattato; all’indirizzo di scenografo e costumista, nonché all’orchestra del Regio ancora una volta rivelatasi compagine di innegabile caratura, in grado di affrontare oggi qualsiasi partitura (dal Barocco al contemporaneo) con souplesse e professionalità, allineata sugli standard dei massimi complessi di livello internazionale. E poi il coro, le ottime luci, insomma applausi del tutto meritati tali da decretare un vero e proprio trionfo per lo spettacolo, da parte di un pubblico folto e pienamente convinto.
Già c’era stata l’applaudita anteprima giovani la sera di mercoledì 16. E si sa quanto Muti abbia a cuore i giovani (lo ha ribadito più volte anche di recente), sicché sarà davvero illuminante l’incontro del prossimo 25 novembre ch’egli stesso ha espressamente voluto, con e per i giovani, nel salone del Conservatorio cittadino.
Ma andiamo senz’altro con ordine, partendo ovviamente dalla direzione. A dir poco esaltante il lavoro di ‘scavo’ e di ‘approfondimento’ della partitura (sia concessa la banalità dell’espressione) da parte di Muti: più ancora il lavoro di concertazione, ottimamente assecondato da un’orchestra in stato di grazia e in piena forma in tutte le sue sezioni, nessuna esclusa, merita ribadirlo. E allora – lo si anticipava più sopra – ecco emergere una miriade di dettagli: controcanti che raramente accade di ascoltare, sottolineature dinamiche, fraseggi fluenti e costantemente al servizio della ‘resa’ per così dire scenica; armonie poste in evidenza, ma sempre con naturalezza e raffinata eleganza, senza eccessi né (come altri) provocazioni inutili. I tempi: sciolti e scorrevoli dove occorre, sì da imprimere allo spettacolo il giusto ‘ritmo’, sì da far fluire il tutto senza che mai un solo istante di ristagno sia da rilevare, per contro giusti indugi laddove è opportuno. Gli esempi potrebbero essere molti: per ragioni di spazio ci limitiamo a pochi cenni. L’aria ‘del catalogo’, per dire: spesso viene affrontata con eccessiva baldanza e tempi troppo rapidi e se ne perde in parte l’enorme fragranza e la carica eversiva (testuale) in essa contenuta. Muti l’ha centellinata con una cura che ha destato non poca ammirazione. Idem dicasi dell’aria di Don Ottavio, spesso se non trascurata, posta un po’ in ombra, o quantomeno lasciata un po’ a se stessa. Muti le ha riservato ogni cura, come pure, s’intende, ad ogni altra aria: era per dire di due passi che hanno destato ammirazione e per certi versi sorpresa. E poi, quanta cura nell’accarezzare il tessuto orchestrale, rendendolo duttile e plasmabile nei recitativi accompagnati (per inciso: un plauso speciale ad Alessandro Benigni, per aver disimpegnato invece dalla tastiera del fortepiano i recitativi secchi con gusto, garbo, eleganza e talora anche un tocco di humour intercalandoli con sobri, ma efficaci abbellimenti). E ancora: il tratto delicato per le maschere, e poi quanta efficacia nei passi per così dire sulfurei della partitura, a partire dalla parte iniziale della sublime Ouverture, giù giù sino alla scena in cui si palesa il fantasma del Commendatore; e allora quelle dissonanze poste in evidenza, le pre-romantiche e minacciose settime diminuite che paiono anticipare certi passi del Requiem e molto altro ancora. Insomma una vera e propria lezione di stile, quella di Muti, che ha inteso depurare la partitura di certi orpelli e talune ‘incrostazioni’ per così dire depositatesi nel tempo, restituendola alla sua primigenia freschezza e bellezza e ponendone in luce tutta la sua straordinaria efficacia: giù giù sino alla scena conclusiva, la ‘morale’ della vicenda, laddove, dopo il clou, tremendo e tragico, in cui il dissoluto ‘giovane cavaliere estremamente licenzioso’ (e pur coerente nella sua malata e nevrotica, insaziabile passione) viene giustamente punito, si ritorna in un certo senso alla quotidianità e la musica torna a zampillare leggiadra e solare, dopo gli abissi toccati nell’alludere alle pene dell’inferno ed alla punizione divina (come poi sarà nell’evocazione del giudizio estremo entro il Requiem).
Ed ora le voci: Luca Micheletti ha sbozzato un Don Giovanni pienamente convincente sotto tutti i punti di vista, vocale innanzitutto, un Don Giovanni perverso ed insinuante, ‘insaziabile predatore’ ed amorale, scaltro, demoniaco e arrogante. Tecnica sicura, vocalità eccellente ha convinto tutti, raccogliendo applausi a scena aperta. Ed anche sul piano attoriale (il merito ovviamente va alla regia di Chiara Muti, oltre che a Micheletti stesso che ne ha assecondato la direzione), facendo emergere ogni aspetto della personalità complessa, poliedrica e luciferina di un personaggio che nei secoli ha attratto letterati e filosofi, musicisti e quant’altri: da Tirso de Molina sino a Kirkegaard. «Mito immortale del seduttore per antonomasia, ma in realtà incarnazione del desiderio infinito». Ed anche quel suo fare ridanciano e spaccone – invero un po’ sopra le righe – nella celeberrima scena del cimitero, pur tuttavia aveva una sua coerenza, così dicasi dei suoi gesti dapprima scomposti e poi disperati nell’opporsi con fierezza inattaccabile a chi lo trascina infine verso gli abissi dell’inferno, dopo che era apparso solo con se stesso, su una sedia a cenare in maniera bulimica, entro una cornice cupa, come del resto opportunamente, quasi tutto lo spettacolo stesso.
Apprezzata Jacquelyn Wagner nei panni di Donna Anna: ha avuto momenti di estrema eleganza e grande efficacia vocale (bellissimi suoni filari e notevoli delicatezze), a fronte di qualche tratto (ma è piccola cosa, la si segnala per puro scrupolo di cronaca) in cui è parsa affiorare qualche lieve asprezza, che pure non le ha impedito di raccogliere invero meritati applausi. Molto bene anch’ella, come Micheletti, sul piano scenico; così pure occorre affermare per Mariangela Sicilia nel non agevole ruolo di Donna Elvira, combattuta tra mille contraddittori sentimenti. Bene Giovanni Sala, un Don Ottavio convincente, nonostante qualche esitazione iniziale, della sua aria già si accennava, apprezzato anche sul piano della resa psicologica di un personaggio relegato ad un ruolo non facile da accettare, s’intende dire dal punto di vista umano, entro l’economia della vicenda. Superlativo il Leporello di Alessandro Luongo, sotto tutti i punti di vista. Inutile aggiungere aggettivi. Interpretazione esemplare. Punto. Ogni Leporello che si rispetti dovrebbe averlo come punto di riferimento. Detto questo è detto tutto.
Fresca e dinamica la Zerlina sbozzata da Francesa Di Sauro, deliziosa nel suo giovanile ardore e nella sua ingenua dedizione a Masetto, ma anche ricca di sfumature, incerta se cedere o meno al seduttore, poi pronta a farsi percuotere dal marito geloso, ma al tempo stesso abile nel far emergere la sua provocante femminilità. Bene Masetto, e si trattava di Leon Košavic, aitante e vendicativo, ma pronto a far pace, furioso e ribelle, ma anche accondiscendente e avvezzo a piegarsi al destino ed ai potenti. Insomma una resa vocale e scenica comme il faut. Da ultimo un plauso alla ieratica e possente credibilità vocale dell’esperto basso Riccardo Zanellato, un Commendatore minaccioso e spaventevole, come giusto, vero motore della parte finale del dramma giocoso.
Ancora una volta – a voler concludere la disamina dello spettacolo sul versante squisitamente musicale – inappuntabile il Coro del Regio, ottimamente istruito da Andrea Secchi e dislocato in maniera molto opportuna, così come è parsa ottima scelta quella, salvo errori, di rialzare leggermente il piano della buca d’orchestra, con efficace ricaduta sul piano fonico.
Scene allusive e realistiche al tempo stesso, quelle di Alessandro Camera entro le quali si inserivano benissimo i costumi di Tommaso Lagattolla dai colori variegati – a designare donne di epoche differenti, quali incarnazioni dell’eterno femminino – salvo indugiare sul nero per Don Giovanni stesso, ma l’interno del mantello è diabolicamente rosso e per Leporello. La facciata di un palazzo nobiliare in rovina, con tutto quanto di simbolico ne deriva: e allora il palazzo stesso reso di sguincio, ma come proiettato sul piano orizzontale, e rimandato specularmente da un gioco di fondali dipinti (in ossequio alla tradizione settecentesca), fondali che poi cadono in maniera plateale nel momento della discesa agli inferi di Don Giovanni. Non solo: il palazzo in rovina posto in orizzontale (in realtà inclinato) possiede botole dalle quali Chiara Muti fa uscire ed entrare i personaggi con notevole efficacia e dinamismo. Poi per la scena del cimitero ecco una piattaforma girevole, l’unica parte dello spettacolo in cui, opportunamente, la continuità delle scene stesse viene meno. E allora tutto un mondo sotterraneo e misterioso pare schiudersi ai nostri occhi, ma con qualche tocco di humour, nel mimare il movimento della statua che muove la testa e che incute timore a Leporello: e si tratta di uno dei tanti burattini ammassati in una specie di sotterraneo. Bene aver reso la Statua del Commendatore con una silhouette per così dire a scena intera, sicché giganteggia infondendo il giusto terrore.
La regìa di Chiara Muti è senz’altro ammirevole: una regìa, si diceva, volta a suggerire ogni minimo dettaglio contenuto nel libretto. Lungi, però, dall’apparire didascalica o ipertrofica. Una regia che, di fatto, non rischia mai di apparire in contrasto con il piano musicale. Una regia polisemantica, forse, ma di grande efficacia, godibile, intelligente, colta e fitta di rimandi a chi li voglia e li sappia cogliere. Chiara Muti nelle note di regìa parla esplicitamente di «brandelli d’un decoro di teatro usurato dal tempo», di «porte riverse al suolo, più simili a sepolcri che non a fastosi luoghi di incontri», allude a «corpi di marionette che risorgono dalle ceneri di un tempo che fu, logore e polverose». E infatti le marionette compaiono già in apertura, rivestendosi dei propri panni specifici, e specularmente ecco che i personaggi, a fine spettacolo, spogliandosi dagli abiti di scena, ‘mimano’ i gesti di marionette come mossi dalle fila del destino. Un’idea senza dubbio suggestiva e di buona resa. Ottimo il lavoro svolto, già lo si diceva, sui movimenti dei personaggi, curati nei minimi dettagli, e allora grande dinamismo dove occorre, ma anche alcuni fermi immagine, quasi fotogrammi di una pellicola, quasi istantanee volte a sottolineare certi preziosità della partitura stessa. Una regia di fatto apprezzata ed apprezzabile che asseconda opportunamente e con sagacia la partitura e così pure il libretto.
Forse si sarebbe potuto evitare, o quanto meno attenuare qualcosa, quell’agitarsi frenetico sotto le lenzuola del talamo della coppia Zerlina/Masetto, le pur esplicite corna posticce sul capo di Masetto (di fatto esornative, e non essenziali per comprendere il tradimento subito); così pure il fuggevole accenno all’intimo color rosso di Zerlina nel momento in cui cede al seduttore, sia pur con un effetto vedo-non vedo, quel diadema da Luigi XIV posto sul capo di Don Giovanni per pochi istanti e che pure pareva avere un suo perché (per Chiara Muti Donna Anna è una dama alla corte del Re Sole mentre Elvira una contessa della Belle Époque). Forse si sarebbe potuto anche evitare di mettere una bimba in scena, o poco più laddove nel ‘catalogo’ si allude alla ‘piccina ognor vezzosa’ in contrapposizione alla ‘grande maestosa’: è donna di corporatura minuta, non una bimba, diversamente si rischia di alludere a Don Giovanni quale (possibile, ma un po’ forzato) pedofilo incallito e ante litteram; e la bimba è tale in quanto una polvere di stelline luminescenti l’avvolge, quando avanza scalza; e che dire delle vecchie delle quali Don Giovanni ‘fa conquista per piacer di porle in lista’: erano davvero tali, claudicanti e piegate dai reumatismi e dall’artrite, ed hanno fatto sorridere la platea, certo insinuando un tocco di ironia da Singspiel ovvero da opera buffa, più Papagene che non donne mature, quali intendevano Lorenzo Da ponte e Mozart stesso: le ‘vecchie’ dell’epoca infatti verosimilmente erano – diciamo – trentenni o poco più, al cospetto di una giovanissima e poco più che adolescente Zerlina. Bon. Ma sono dettagli, non ce ne vogliano lettori e regista stessa, che non inficiano certo una regia di alto livello.
Ottime, infine, le luci di Vincent Longuemare, e sarebbero molti i momenti da sottolineare, ed è solo per ragioni di spazio che risulta impossibile farlo: livide e cupe, dove occorre, ma con ‘aperture’ significative e squarci di cielo eccellenti, insomma luci perfettamente equilibrate e funzionali allo spettacolo. Uno spettacolo del quale conserveremo a lungo memoria e che di certo – facile prevederlo – resterà negli annali del Regio (con i suoi tre secoli di storia, all’incirca), o se si preferisce anche solo del nuovo Regio, quello molliniano che proprio nel 2023 si appresta a celebrare il 50° dall’apertura con i verdiani Vespri siciliani ed una (pur criticata) regia dell’immortale Maria Callas.