di Attilio Piovano
Per quanto singolare possa sembrare, La sposa dello Zar (ovvero La fidanzata dello Zar titolo originale: Carskaja nevesta) di Rimskij-Korsakov – insuperato mago dell’orchestrazione – mai era apparsa in cartellone al Teatro Regio di Torino. Ci è giunta, per la prima volta, purtroppo per due sole serate, lo scorso 26 e 28 aprile 2023, in forma di concerto.
Ci si trova in presenza se non di un capolavoro assoluto, certo di qualcosa che vi si approssima di molto; quantomeno di opera fascinosa e avvincente si tratta, una trama «quasi sinistra, con le sue lotte di potere che si intrecciano alle vicende personali». Iniziata nel corso del 1898 e condotta a termine, con insolita rapidità, a fine novembre di quello stesso anno, l’opera su libretto di Il’ija Tijumenev e dello stesso Rimskij-Korsakov, tratto dall’omonimo dramma in versi di Lev Mej, venne rappresentata per la prima volta presso il moscovita teatro Solodovnikov il 22 ottobre 1899 riscuotendo immediato successo. In conseguenza, è tuttora assai popolare in Russia dove si è soliti riproporla, mentre appare invece in cartellone assai di rado in Italia (di recente alla Scala).
Per quanto paradossale possa sembrare, in virtù di un tessuto orchestrale per lo più ‘denso’ e screziato, a partire dalla superba Ouverture – questa sì, entrata ormai de jure nel repertorio sinfonico – l’opera, con i suoi recitativi orchestrali di notevole spessore drammatico dall’allure talora quasi verdiana (un po’ La forza, già in apertura «Dove sei finita mia antica audacia», un po’ Simone e un po’ Macbeth), con quei suoi pregnanti declamati, l’uso parsimonioso, ma significativo e ‘non wagneriano’ dei leit-motive, e ancora, coi suoi squarci lirici, i passi d’insieme (duetti, terzetti, un quartetto e addirittura un quintetto e un sestetto col coro) e i non pochi momenti concitati, di fatto non ci perde poi molto ad essere eseguita priva di scene. Consentendo un ascolto tutto concentrato sui valori squisitamente musicali della partitura (si pensi a cosa sarebbe eseguire in forma di concerto – per dire – un Rigoletto o una Traviata mentre certo Wagner ‘regge’ meglio). Ancora dell’Ouverture merita segnalare l’icasticità ritmica dell’esordio posto a reagire con un tema di carezzevole soavità. Si rivela memore di Glinka, ma anche del fatalismo tragico delle fanfare di ottoni presenti nella Quarta di Čajkovskij.
E dunque si tratta dell’opera non a caso in assoluto più popolare dell’autore di Schéhérazade. Quattro atti concisi, per lo più drammaturgicamente incalzanti e di innegabile appeal sul piano strettamente musicale, con un plot da fosca e passionale tragedia quasi shakespeareana: profondamente calata nella cultura russa dacché basata sugli eventi del 1571, ovvero ambientata ai tempi dello zar Ivan IV il Terribile, vedovo in cerca di una nuova (terza) moglie. E così vi è spazio per boiari, amore, gelosia, filtri, pozioni, pugnali, scambi di persona, ira e momenti di indicibile tenerezza, confessioni, truculenze, delitti e deliri, «emozioni esplosive che si completano reciprocamente con una struttura stellare»: un calibrato mix con tanto di sorprendente ribaltone finale. Non solo: essa rivela fin dall’esordio la sua precipua impronta politica, col crudele e spietato zar al vertice, le citate vicende storiche intese quale vero e proprio ‘personaggio’ a tutti gli effetti, «sorgente del veleno che il potere inietta nella mente dei sudditi, stretti nella morsa della paura e della cupidigia».
A Torino l’opera è stata proposta ovviamente in russo con sopra titoli in italiano e in inglese grazie ad un cast di specialisti convocati a dipanare ad arte i quattro atti, invero molto diversi (Il festino. Il filtro d’amore. Il testimone di nozze. La sposa), come differenti sono le due protagoniste femminili: Ljubaša, amante di Grjaznoj, sensuale e focosa (vagamente ricorda qualcosa di Azucena), ottimamente disimpegnata dal ‘mezzo’ Ksenia Chubunova (applaudita fin dalla struggente canzone a voce sola del primo atto «Presto, presto o madre cara» e così pure nel tragico momento topico del second’atto «L’ho trovata. È dunque questo il nido della colomba?»), più onirica e rarefatta Marfa, figlia di Sobakin, cui ha dato voce la bielorussa Nadine Koutcher ammirata per eleganza e virtuosismo e per partecipazione emotiva fin dalla soave aria del second’atto «Dall’infanzia a Novgorod vivevamo vicini», giù giù sino al vaneggiare dell’aria conclusiva «Ivan Sergeevič, vuoi passeggiare con me nel giardino?» (atto quarto).
Possenti e incisive tutte le voci maschili e dunque in primis il baritono Elchin Azizov nei panni dell’opričnik Grjaznoj, i bassi Gennady Bezzubenkov (Sobakin, mercante di Novgorod) e così pure Giorgi Chelidze (Skuratov). Unico elemento un po’ al di sotto, quanto a livello interpretativo, per certe ineleganze e un che di vocalmente grezzo, il tenore Sergey Radchenko nel ruolo del boiaro Lykov, parso ‘alle corde’ nell’aria del terz’atto «Le nubi tempestose sono sparite». Buona la performance dei restanti: Thomas Cilluffo (Bomelij, alchimista e medico dello zar) e sul versante femminile Irina Bogdanova e Veta Pilipenko.
Di una partitura insomma di attraente bellezza si tratta; rivela echi di Borodin, specie le Sinfonie, ma anche il Principe Igor e così pure del teatro di Čajkovskij e della musorgskijana Khovantschina, il tutto ripensato con originalità, partitura che lo ‘specialista’ Valentin Uryupin – premiato interprete di musica slava e vincitore del premio internazionale di direzione d’orchestra “Sir Georg Solti” di Francoforte – dal podio ha governato con mano salda e una non comune capacità nel dar vita a infinite gradazioni coloristiche e così pure ritmico-dinamiche: potendo contare sull’Orchestra del Regio che ancora una volta ha superato se stessa e così pure sul Coro ottimamente istruito da Andrea Secchi, ammirato per vigore (certi passaggi solo ‘maschili’ intrisi di humus folklorico), ma anche per delicatezza dove occorre (e allora ecco le sole donne), nonché per l’abilità dell’immedesimarsi al meglio entro la lingua russa.
Davvero notevole e pienamente meritato il successo di pubblico in entrambe le serate, con lunghi applausi a fine spettacolo. Unica nota di demerito, pubblico invero scarso ed è stato un vero peccato. Viene da domandarsi allora perché mai il pubblico sia così pigro e affolli il teatro sempre quasi solo per titoli che già conosce (Nozze e Barbiere, Lucia e Traviata, Tosca…). Va bene il ponte del 25 aprile e 1° maggio, va bene la presenza di concomitanti eventi (una partita, taluno suggeriva) ma suvvia, un po’ di curiosità intellettuale. Chi c’era ne è stato ripagato e ne conserverà a lungo gradita memoria.