di Luca Chierici
Il vero motivo per il quale la ripresa dell’Andrea Chénier nell’allestimento scaligero di Martone (scene di Margherita Palli, Costumi di Ursula Patzak, luci di Pasquale Mari) ha riscosso un notevole successo di pubblico ma non un unanime consenso tra gli “intenditori” è insito nel carattere dell’opera stessa, che per quanto riammodernata dai precedenti interventi di Chailly ha anche denunciato una situazione incontrovertibile.
Si tratta infatti di una grande opera “verista” che ha avuto un’importanza enorme nella programmazione del Teatro, ma che per gusto, scrittura vocale, richieste sceniche è irrimediabilmente rivolta al passato. Al passato anche per ciò che riguarda i nomi che hanno regolato i successi di Chènier nel corso di quasi centocinquanta serate in un periodo di tempo che dal 1896 giunge almeno al 1985 e che ha visto la presenza di cantanti “di peso” che erano davvero capaci di reggere l’impatto di questo titolo soddisfacendo a tutte le richieste di una vocalità che sembra scomparsa. Anzi, nel confronto con le più recenti rappresentazioni del 2017, la protagonista Sonya Yoncheva non aveva lo stesso appeal della Netrebko e lo stesso Yusif Eyvazov, già nel ruolo del titolo, appariva contare solamente sul volume di una voce timbricamente già non ricca di armonici, “fissa” e relativamente poco comunicativa.
Il cambiamento improvviso dell’interprete del personaggio di Gérard – anche questa volta avrebbe dovuto essere presente Ambrogio Maestri, sostituito da Luca Salsi – è stato invece provvidenziale perché il baritono ha restituito un ruolo difficile e pesante in maniera ammirevole, con una emissione sempre franca, convinta e quindi di grande presa sul pubblico. Non andiamo quindi a scomodare i Del Monaco, i Corelli, i Carreras, i Gigli, i Pertile. Tantomeno la Tebaldi, la Callas, la Caniglia, la Cigna. Tutti personaggi che rappresentavano l‘incarnazione ideale per i ruoli di questa operona strappalacrime. L’assenza di Chailly si è sentita: Armiliato è un buon direttore a proprio agio soprattutto con il pubblico americano ma ha estratto dalla partitura di Giordano spesso solamente i lati più esteriori. L’allestimento a firma Martone ha denunciato i propri limiti ripensando anche all’accoglienza tutto sommato positiva di sei anni fa: una regìa fin troppo fedele al libretto così come lo erano le scene della Palli con il loro ricorso ai meccanismi rotanti.
Di rilievo è stata la Madelon di Elena Zilio e applauditi tutti i comprimari, compreso il sempre preparato Coro di Alberto Malazzi. Successo pieno, in un teatro con molte presenze straniere