di Gianluigi Mattietti
Quest’anno, il festival Printemps des Arts di Montecarlo ha preso in prestito il titolo dal celebre rondeau-palindromo di Machaut «Ma fin est mon commencement», con l’intento di sollevare degli interrogativi su traiettorie creative e cambiamenti stilistici all’interno di determinati repertori.
Ha mostrato ad esempio l’evoluzione nell’opera completa per violoncello e pianoforte di Gabriel Fauré (affidata a Aurélien e Denis Pascal) o nelle dieci sonate per pianoforte di Alexander Skrjabin (interpretate di Varduhi Yeritsyan). E ha presentato un interessante focus sulla musica americana, mettendo a confronto autori assai diversi sia nel concerto dell’Orchestre Philharmonique de MonteCarlo, diretta dal giovane direttore di Macao Lio Kuokman (che ha sostituito last minute Case Scaglione), sia nel concerto dell’Ensemble TM+, diretto da Laurent Cuniot. Nel concerto orchestrale The Unanswered Question (1908) di Charles Ives, con la sua atmosfera quasi siderale data dalle frizioni tonali tra l’orchestra d’archi (sul palco) e la sua doppia estensione di tromba e quartetto di flauti (dislocati in punti diversi della sala), si contrapponeva all’euforica e magniloquente scrittura orchestrale della Sinfonia n.3 (1946) di Aaron Copland, pensata come edificante contributo alla grande sinfonia americana, una musica piena di effetti, di colori scintillanti e sovraesposti, di slanci ritmici, di passi cadenzati e solenni, in un gioco insieme incalzante e snervante. L’Ensemble TM+ ha invece messo a confronto due pezzi rari di Elliott Carter e due di Steve Reich. Di Carter è stato eseguito il giocoso Gra (1993), per clarinetto solo, che cambiava continuamente umore attraverso l’uso di tutti i registri dello strumento, con multifonici nelle battute finali; e il ciclo A Mirror on Which to Dwell (1975), per soprano e orchestra da camera, su sei poesie di Elizabeth Bishop, lavoro raffinato e intensamente espressivo, con una parte strumentale timbricamente molto varia e una parte vocale dagli echi schönberghiani, interpretata con grande sensibilità da Elise Chauvin. Anche di Steve Reich è stato eseguito un pezzo solistico, Cello Counterpoint (2003) per violoncello amplificato e nastro multicanale, ricco di giochi contrappuntistici e sofisticati incastri ritmici, accanto a un pezzo per ensemble come City Life (1995): qui i campionatori digitali che riproducevano voci parlate e rumori di New York, dai clacson, ai freni, agli allarmi, ripresi e tematizzati dagli strumenti in un grande flusso di energia, svelavano invece il coté metropolitano della musica americana, già celebrato da Gershwin e Varèse.
Lio Kuokman ha anche diretto una novità di François Meïmoun, Antigone, vasto melologo per orchestra e voce recitante, interpretato da un attore celebre come Laurent Stocker (della Comédie-Française). Nella rilettura introspettiva del mito di Antigone, nel testo di Géraldine Aïdan, Stocker incarnava vari personaggi con voci ed espressioni diverse, con una recitazione a tratti intimistica a tratti aggressiva, con momenti recitati in falsetto, altri cantati come delle arcaiche melopee (ed erano i momenti peggiori della sua performance). La parte orchestrale era concepita come un fondale sonoro che accompagnava la narrazione in modo un po’ grossier, alternando sequenze accordali, improvvise eruzioni, dense stratificazioni di parti strumentali, cluster degli archi, con qualche assolo strumentale e un uso smisurato di ottoni e percussioni. Deludente anche il nuovo quartetto di Philippe Schoeller, Extasis, che alternava echi del primo Novecento e del quartetto classico, cercando sempre l’intensità lirica, ma con una struttura frammentaria, una scrittura “antologica” (quasi un compendio di gesti quartettistici), movimenti moto lunghi e basati solo su processi di accumulo, che alla fine veniva meno ogni tensione. Lo ha eseguito il Quartetto Diotima (per il quale Schoeller nel 2009 aveva già scritto Operspective Hölderlin, un progetto che chiamava in causa anche la voce Barbara Hannigan e un sofisticato sistema di diffusione “olofonica”), in un concerto dove si confrontavano anche l’ultimo quartetto di Bartók (1939), e il primo di Ligeti (1954), intitolato «Métamorphoses nocturnes»: straordinario esempio di come la “fine” di un percorso quartettistico possa combaciare con l’”inizio” di un altro, come un passaggio di consegne, dove Ligeti sembrava prendere in eredità da Bartok la forza ritmica, la densità armonica, il sapiente costruttivismo, la capacità di creare organismi dal coerente sviluppo di ogni minima cellula tematica.