Il capolavoro di Vinci torna in scena all’Opéra Royal con una compagnia di soli uomini, capeggiata da Franco Fagioli e Max Emanuel Cenčić. Esemplari la regìa di Silviu Purcarete e la direzione di Diego Fasolis, per uno spettacolo memorabile
di Francesco Lora
IL FAMOSO DECRETO PAPALE CHE VIETAVA ALLE DONNE DI ESIBIRSI IN PUBBLICO, a Roma nel Sei-Settecento, non è mai stato individuato e probabilmente non è mai esistito. Piuttosto, ne esisteva un altro che interdiceva il teatro alle donne come spettatrici. Fatto sta, però, che a Roma e non altrove, fino a Settecento inoltrato, fu prassi allestire opere con compagnie di tutti uomini, e con castrati in parti sia maschili sia femminili. L’idea di ritentare l’esperimento, ricorrendo a controtenori in luogo dei castrati, era già venuta al compianto Massimo De Bernart: sognava di dirigere l’Artaserse con libretto di Pietro Metastasio e musica di Leonardo Vinci (Roma 1730), ma non se ne poté fare nulla, poiché i tempi non erano ancora maturi per simili esperimenti. Poi, da un anno a questa parte, è scoppiato il caso.
Alle porte di Vienna ha sede un’agenzia lirica, Parnassus, che a differenza delle altre non si limita a vendere cantanti, ma anche autoproduce progetti discografici e spettacoli teatrali. Possiede la più bella scuderia di controtenori dei nostri giorni, Franco Fagioli in testa, e ha un altro grande controtenore, Max Emanuel Cenčić, come direttore artistico. Sono persone che conoscono il repertorio musicale e la vita di palcoscenico, e che sanno innescare sia un terremoto artistico sia un colpo massmediatico. Nel 2012 hanno corso il rischio di incidere e pubblicare un’opera citata nei libri di storia della musica ma mai ascoltata ai giorni nostri: appunto l’Artaserse di Metastasio-Vinci, eseguita con cinque controtenori e un tenore, e con in copertina un Philippe Jaroussky ammantato in svolazzanti piume di struzzo, quasi a voler ammiccare da una parte ai costumi di scena settecenteschi, dall’altra al fenomeno anche gender in qualche modo messo in moto. Pare che abbiano venduto in pochi mesi dieci volte il numero di copie che alcuni CD di Claudio Abbado hanno venduto in vent’anni. Alla fine del 2012 stesso il CD dell’Artaserse è divenuto uno spettacolo scenico all’Opéra national de Lorraine di Nancy, è stato benedetto dalla diretta televisiva su Arte, piratato infinite volte da fan entusiasti su Youtube e costellato da riprese in forma di concerto in mezza Europa (non in Italia, si capisce). Anziché smorzarsi col passare del tempo, il fenomeno è rimasto stabile o va persino crescendo: è appena uscito il DVD dello spettacolo lorenese, sul quale i nostri lettori potranno misurare i nostri giudizi, e c’è appena stata la ripresa dello stesso spettacolo all’Opéra royal di Versailles, davanti a un pubblico letteralmente impazzito di gioia. Tre recite il 19, 21 e 23 marzo per la sopraffina stagione di Château de Versailles Spectacles: ne andiamo a dire.
L’allestimento firmato da Silviu Purcarete, per regìa, scene e costumi, lascia il segno e fissa un modello di approccio teatrale contemporaneo all’opera seria e al teatro metastasiano. Si gioca ecletticamente su molti piani: si trovano messi a punto e giustapposti il rilievo retorico della declamazione, l’immedesimazione dell’attore nel personaggio e l’autocompiacimento del divo di fronte al pubblico. Il messaggio dei versi e le strutture della musica sono non solo rispettati, ma anche evidenziati e per così dire spiegati: nell’aria di disperazione di Mandane, «Dimmi che un empio sei», il personaggio cammina in tondo su una pedana rotante, frenetico come la musica e impotente come un animale in gabbia; nell’aria di furore dello stesso personaggio, «Va’ tra le selve ircane», le quinte che scorrono durante i ritornelli strumentali sottolineano la struttura del pezzo con da capo, a quest’altezza storica non più tripartita bensì pentapartita. I costumi da soli varrebbero un saggio di approfondimento: v’è l’abito persiano secondo archeologia e v’è quello secondo rivisitazione esotica; v’è l’abito settecentesco secondo filologia e quello secondo rivisitazione postmoderna; ciascuno riveste un modo di essere del personaggio, con ironia e affetto. Anche solo a partire dalla parte visiva così concepita, si trova ribadita l’imperitura attualità del dramma per musica.
La compagnia di canto è capeggiata da Franco Fagioli nella parte di Arbace, che fu del grande Giovanni Carestini (l’unico cantante che Farinelli considerò nei fatti proprio rivale) e che è il vero ruolo protagonista dell’opera (il titolo spetta ad Artaserse come mero omaggio alla sua testa coronata). Il profilo vocale supremo di questo artista, che non teme le più folli diavolerie di scrittura musicale e che sa nel contempo dar vita a un personaggio commovente, è già stato descritto in queste pagine a proposito del Polifemo di Porpora cantato a Vienna nel febbraio 2013. Non c’è molto da aggiungere, per ineffabilità di situazione: le ovazioni al termine della grande aria conclusiva dell’atto I, «Vo solcando un mar crudele», non hanno molta possibilità di confronto ai giorni nostri (ciò benché l’astrale Fagioli, tra una terzina e l’altra di crome alla breve, si ostini a cantare «mi consola l’innocenza» anziché «meco sola è l’innocenza»: ecco, tra tanto bendidìo, il peggior difetto che gli abbiamo trovato addosso). Deuteragonista è Max Emanuel Cenčić come Mandane: voce più metallica, svettante e tagliente rispetto a quella di Fagioli, oltre che attore en travesti nel quale convivono la grazia verginale e la picchiata dell’aquila, egli dà luogo a un personaggio di straordinaria eloquenza, passione e combattività, il quale è un carattere umano prima ancora che una figura maschile o femminile.
Se Fagioli e Cenčić dimostrano l’avvento di una nuova generazione di controtenori, dotati di mezzi e tecnica incomparabilmente superiori a quelli dei predecessori, anche i loro compagni di corda Valer Barna Sabadus come Semira (seconda donna en travesti e presenza scenica mozzafiato) e Yuriy Minenko come Megabise (parte di fianco tuttavia munita di tre arie considerevoli) mostrano qualità eccellenti su ogni fronte. E di grande interesse è anche il materiale del sudcoreano Vince Yi, quinto controtenore del gruppo, giunto a rimpiazzare lo Jaroussky già impegnato nel CD e a Nancy: il suo canto di levità davvero infantile consegna un Artaserse inedito, incredulo e impotente nella macchina dei tradimenti. Il traditore Artabano, per contro, è interpretato dall’unico punto greve dello spettacolo, e cioè dal tenore Juan Sancho, vociante e sgarbato come un buzzurro verista: lo stesso equivoco aveva già guastato la sua prova nell’Alessandro di Händel, e sarebbe cosa buona se qualcuno gli insegnasse che un bravo antagonista si muove piuttosto per dissimulazione e insinuazione.
Un altro punto debole, in verità, lo si ascolta nel Concerto Köln: sorprendentemente quest’orchestra barocca, che per eleganza di suono è nel suo campo l’equivalente di una Staatskapelle Dresden, si è presentata a Versailles esigua nel numero, avventurosa nell’intonazione e disattenta alle richieste del direttore. Peccato mortale, poiché il direttore in questione è un Diego Fasolis di autorevolezza michelangiolesca, sempre attento al dettaglio dell’ornamentazione musicale senza mai perdere di vista la coerenza dell’insieme e le ragioni teatrali; diretta da lui, un’opera metastasiana depone le smunte carinerie stratificate dal luogo comune e mette in luce la carne e il sangue, lo studio dell’animo umano, l’algebra della vita con le sue incognite e i suoi cambiamenti di segno da una scena all’altra. Ecco come si fa una regìa dal podio.
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