Il regista Damiano Michieletto ha incontrato il pubblico in occasione della rappresentazione dell’opera di Stravinskij, stasera al Teatro La Fenice
di Elena Filini
UNA STRISCIA IN SBIECO sulla locandina chiarisce che lo spettacolo è consigliato ad un pubblico adulto. Certo, quando la firma è quella di Damiano Michieletto, ci si attende di entrare dentro una storia a tinte violente. Ma del resto, come afferma il regista, «l’atto stesso di andare a teatro non può essere un gesto normale». È anche vero che in un bordello non si degusta, generalmente, cioccolata calda. E che dunque The Rake’s Progress non sia materia per educande pare assodato.
Dopo la trilogia mozartiana firmata per il Teatro La Fenice, Damiano Michieletto ed il suo team tornano a Venezia per The Rake’s Progress di Igor Stravinskij. Ed è già il sipario in glitter a riflettere la luce di un’occasione importante. Qui infatti nel 1951 si levava la tenda sulla prima assoluta, con Elisabeth Schwarzkopf come Anna Trulove. L’opera, in coproduzione con la Staatsoper di Lipsia, dove è stata rappresentata negli scorsi mesi, debutta questa sera con un cast di interpreti cari al teatro veneziano, molti dei quali già protagonisti del Don Giovanni di Michieletto, quasi a creare un filo anche esecutivo tra le due partiture. Con la generale di mercoledì il Teatro La Fenice ha proposto al pubblico anche un incontro con il regista veneziano che il Corriere musicale qui racconta e si è rivelata un’ ottima occasione per una migliore lettura dell’opera.
«Il diavolo non esiste. Esiste una natura umana complicata, qualcosa con cui dobbiamo fare i conti». Così Michieletto, in dialogo con il direttore artistico Fortunato Ortombina, inizia a chiarire la sua lettura dell’opera. È dunque sull’intuizione mozartiana che Stravinskij sviluppa l’idea del maligno come ombra, un altro da sè che in realtà diventa la spettacolarizzazione della propria coscienza. Così Nick Shadow, diabolico e guascone, è davvero l’incarnazione del burlatore, l’archetipo con cui Jung legge tutta l’epopea dongiovannesca. Ma è anche, molto più prosaicamente, un Don Giovanni formato Novecento, almeno secondo Stravinskij che ce ne restituisce un connotato essenziale, la vocalità. Il sipario si leva su un sabato pomeriggio molto yankee: il rito del barbecue si svolge nella più quieta noia quando Nick Shadow vestito da portalettere accende la miccia dell’azione, rivelando a Tom un’inesistente eredità. E’ l’inizio dell’intorbidamento in cui il protagonista s’incammina.Verranno le delizie della lussuria, nel bordello di Mother Goose, arriveranno le nozze con Baba la Turca, la donna barbuta da fiera e alla fine l’inevitabile discesa alla pazzia. Michieletto crea una grandissima piscina che da teatro di piacere diventa abisso di dolore e solitudine quasi implodendo con uno spettacolare meccanismo scenico che la fa diventare un degradato manicomio.
Lasciando alla generale la sua natura di dress rehearsal converrà comunque dire che si sono sentite cose notevoli: Alex Esposito Nick Shadow straordinario così come una centrata Anna Trulove di Carmela Remigio, Juan Francisco Gatell infortunato (al suo posto in scena l’aiuto regista) ma pronto a scendere in campo stasera regala, dalla sedia a lato proscenio, un Tom Rakewell di ottima finitura vocale così come degna di nota la prova di Carlo Rebeschini al cembalo; particolarmente reattivo anche in scena il coro istruito da Marino Moretti e bella la prova dell’orchestra diretta da Diego Matheuz.
L’impressione generale è che qui più che altrove, Michieletto affronti il testo musicale con inedita coerenza, regalando forse uno dei suoi prodotti più significativi. «Il grande lavoro di Shadow – spiega il regista– è quello di corrompere l’umanità, mettendola di fronte alla fascinazione che ognuno di noi subisce per l’eccesso. La morale però, già presente nell’opera senza la necessità di quel prologo finale che io personalmente avrei omesso, è che più l’emozione è forte, più il pericolo è grande. Segue quindi l’immagine di un luogo dove l’umanità discende, dove qualcosa si spacca e s’incrosta anche fisicamente». Più che mai in casi come questi si affronta il concetto di tradizione: The Rake’s Progress è un’opera che ancora inspiegabilmente suona come moderna. «Mi piacerebbe vedere ancora i teatri italiani rischiare come fece la Fenice nel 1951 – continua il regista – promuovere opere nuove con produzioni importanti in una filosofia che fu proprio quella di Strawinskij. Il compositore infatti fa una dotta e vitalissima digestione della tradizione sette-ottocentesca, l’opera è disseminata di citazioni mozartiane. In questo mi sento molto vicino a lui: la tradizione è qualcosa da cui partire e non da rifiutare. Non bisogna cancellare la tradizione come se fosse qualcosa che appensatisce la creatività, ma valersene come trampolino di lancio». Non mancano, durante l’incontro, gli appunti alla seconda scena del primo atto dove la fellatio la fa da padrone. La reazione è compassata “Io mi assumo la responsabilità di un’idea registica e ho il coraggio delle mie azioni. Non mi spaventano le critiche se dentro di me ho la consapevolezza di aver fatto fino in fondo il mio lavoro. Non posso pensare di uniformarmi alle aspettative di un pubblico però; cerco piuttosto di mettermi al servizio di un racconto” conclude. Tuttavia, a ben vedere, il teatro di Michieletto tiene in conto eccome il pubblico: è sempre evidente la volontà di portare tra i velluti rossi e gli stucchi gente nuova, di aprire l’esperienza teatrale ad una fetta anagraficamente e socialmente più ampia. E dunque la provocazione è (quasi letteralmente) una chiamata a favore dell’opera, un tentativo di resistenza creativa ad un genere che troppi considerano oggi inesorabilmente datato.
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