di Redazione
Vestito griffato ad avvolgerla sinuosamente come novella Catwoman, fiammante taglio di capelli alla Miley Cyrus e posa da diva hollywoodiana d’altri tempi. Ammicca così, dalla copertina del suo ultimo album «Stella di Napoli», la diva bionda che più riscuote successo sui social network. Odierna regina del #BaroqueandRoll (termine da lei stessa coniato con tanto di hashtag) ma al contempo amata alla stregua di una cantante pop (ossia con somma adorazione ma con scarsa deferenza), Joyce DiDonato dedica la sua ultima uscita discografica alla produzione belcantistica che ebbe la capitale partenopea come primo palcoscenico, proponendo brani della triade maggiore Rossini-Bellini-Donizetti così come di Pacini, di Carafa, di Mercadante e del finora misconosciuto Carlo Valentini, di cui registra in prima mondiale l’aria dal Sonnambulo (sic) – a dire il vero non molto significativa – «Se il mar sommesso mormora».
La prima traccia – la cabaletta in forma di polacca che dà il nome al cd – è un’adorabile kitscheria coquette alla stregua di «Oh luce di quest’anima» della Linda donizettiana, cui segue di soli tre anni; il gusto nell’infiorettare le variazioni è lo stesso à la Belle Époque che si ritrova nell’ormai classica esecuzione da parte della DiDonato del rondò finale della Donna del lago, specialmente in quel trillo ascendente Do-Re sovracuti da molti giudicato di cattivo gusto ma capace di scatenare l’entusiasmo del melomane uterino, proprio come quelle notine, prima semplici e poi anch’esse reiterate a mo’ di trillo, nella cabaletta dell’aria dall’Elisabetta al castello di Kenilworth. Ampio spazio viene dedicato pure alla vena elegiaca del belcantismo: è questo il caso di «Dopo l’oscuro nembo» dalla prima fatica belliniana Adelson e Salvini (1825), il cui tema melodico ad ampie arcate piangenti verrà ripreso cinque anni dopo nell’aria di Giulietta dei Capuleti e i Montecchi «Oh! Quante volte, oh quante» e, sommamente, della celebre preghiera della Stuarda, dove il mezzosoprano americano mostra un poco il fianco producendosi in acuti piuttosto tirati ed afflitti da un fastidioso vibrato stretto.
Chiude il programma la scena finale della Saffo paciniana, dove alle tendenze spiccatamente romantiche del declamato della sezione centrale seguono i furori ancora squisitamente belcantistici di una disperata cabaletta al modo di quelle dell’Ermione e dell’Armida rossiniane. Eccellente il lavoro musicologico e direttoriale svolto da Riccardo Minasi, qui alla guida delle solidissime compagini artistiche dell’Opéra de Lyon.
Pubblicato il 2015-02-15 Scritto da IlariaBadino