La cantante tedesca, ora residente negli Stati Uniti d’America, racconta con appeal le pieghe della storia riverberata dall’universo del cabaret berlinese e della chanson francese
di Attilio Piovano
UN’ORA E TRE QUARTI non stop, sul palco dell’Auditorium ‘Toscanini’ a Torino, gremito all’inverosimile, la sera di mercoledì 27 maggio 2015. Sul palco lei, la bella e strepitosa Ute Lemper, la sua voce, i suoi gesti ammiccanti, il suo accennare ora a un tango, ora a ritmi languorosi, il suo prendere per mano il pubblico e condurlo, con fascinoso appeal, in un vero e proprio viaggio. Un viaggio – per certi versi autobiografico – nell’universo dei songs berlinesi di Kurt Weill dei quali la Lemper è profonda conoscitrice, e che sono nel suo dna personale e artistico. Ma poi Parigi e Buenos Aires e gli States (quegli States dove oggi vive la Lemper, ideale crogiolo, singolare e stimolante melting pot di razze e di culture) e il ritorno ideale, metaforico a Berlino, e la sua passione civile e allora quel suo annodare le fila di un mondo intero, dagli anni cupi del Nazismo ai quali le songs di Weill-Brecht si opponevano con coraggioso eroismo e nel contempo con disperante e struggente malinconia e gli anni più recenti della caduta del muro.
Una voce che si fa ora dolcissima e sussurrata, quasi ovattata, ora graffiante, ora arrochita
Una voce, quella di Ute Lemper, capace di mille sortilegi e di imprevedibili seduzioni. E il pubblico dell’Unione Musicale convocato per l’occasione l’ha applaudita a lungo. I fans di vecchia data – e sono molti, moltissimi a Torino – ed i nuovi followers, parecchi i giovani (ma non giovanissimi) che apprezzano la sua incredibile professionalità e la profondità della sua ricerca storica. Che apprezzano, soprattutto, la sua capacità di scavo introspettivo attraverso le pieghe della storia riverberata dall’universo del cabaret berlinese, della canzone caustica e trasgressiva come pure della più amabile chanson francese, (giù giù sino alle inquietudini esistenzialiste del Dopoguerra) grazie a mezzi vocali di eccezionale caratura. Una voce che si fa ora dolcissima e sussurrata, quasi ovattata, ora graffiante, ora arrochita, ora aggressiva quasi urlata e beffarda, ora straziante, ora languida e sensuale. Il recital rientrava nel progetto ‘Torino incontra Belino duemila quindici’.
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Un concerto che ha incatenato il pubblico – c’era forse da dubitarne? – attraverso una silloge di veri e propri evergreen, rivisitati con cultura e sensibilità. Non solo: Ute, vera e propria icona della contemporaneità – come ben sanno i suoi fans (ma basta andare su YT e sul suo official website per averne una succulenta campionatura) – riallacciandosi con intelligenza all’immagine inimitabile di Marlene Dietrich, piega la sua voce duttile ora all’imitazione di una tromba nella seducente «Ich bin die fesche Lola» di Hollaender, ora all’evocazione di crepitanti (e pur inesistenti) percussioni, in un caleidoscopio di sensazioni sonore che affascinano, seducono e commuovono, ma senza mai cedere a sdolcinati sentimentalismi: malinconia sì, ma mai ripiegamento sul versante zuccheroso, nulla di manierato. Canto, recitazione, danza e altro ancora si fondono l’uno nell’altra in perfetta simbiosi. Cabaret e umori swing, atmosfera anni Trenta a rievocare quella che il nazismo aveva bollato come musica degenerata, e occhieggiare al côté statunitense come pure francese, una mimesi linguistica incredibile (la Lemper mescola francese, evocando «la ‘r’ esplosiva di Jacques Brel che balugina spesso nelle sue interpretazioni», tedesco, ovviamente, ed inglese), capacità di esplorazione sagace nel repertorio, tecnica e rigore e molta verve.
Successo condiviso con i suoi due impareggiabili partners, il pianista Vana Gierig, artista a trecentossessanta gradi dalla tecnica incredibile e dalla strepitosa sensibilità timbrica e armonica, navigato jazzista aperto alle più dissimili influenze ed il bandoneonista Victor Hugo Villena che, dal suo strumento, sa sprigionare mille sfumature, ora facendosi insinuante e complice compagno di percorso, ora opponendosi con sonorità acuminate come schegge di vetro, aspre e quasi raspanti, ora esalando sospiri dolcissimi. Molti i brani celebri e celeberrimi, compresa l’immancabile «Lili Marleen», passando attraverso i testi di Neruda, giù giù sino al climax conclusivo con un incalzante e irresistibile medley, e in chiusura l’indimenticabile e nostalgica «Die Moritat von Mackie Messer» dall’«Opera da tre soldi» con la quale la Lemper, bombetta in testa e sublime presenza scenica, alternando voce e smagato fischiettare, coinvolge il pubblico intero. Applausi scroscianti e un bis en hommage ad Edith Piaf nel centesimo anniversario della nascita («Non, je ne regrette rien»).
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