di Redazione

2447 XLuys i Luso offre una musica che definisce di genere jazz, ma non è tale più che non lo sia quella dell’opera di Pechino. Tigram Hamasyan, un armeno con alcuni dischi di buon successo alle spalle, qui suona il pianoforte acustico e preparato. È immediata all’ascolto la consonanza della sua musica con il mondo sonoro prediletto dalla Ecm. Di lui si sa che ha ottenuto elogi da Corea e Hancock, il che probabilmente ha suggerito la collocazione assurda nel genere jazzistico (ma tra parentesi si può ricordare come nelle cansie jazzistiche delle discoteche siano transitati anche Graettinger, Glass, Riley e non sapremmo chi ancora tra i de-generi). Di fatto questo Hamasyan ama in primo luogo certa musica da chiesa, una orientale cui s’avvicina alquanto il gregoriano.

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La storiella è nota, ma a non tutti forse ancora. Racconta che avendo Gregorio, vescovo a Milano, commesso non ci dicono quale peccato veniale, pentitosi e chiesta l’espiazione alla suprema autorità competente, venne a sapere che un noioso mal di pancia l’avrebbe tormentato sempre, ma non durante le funzioni. Ciò gli suggerì di allungarle, facendo cantare una sillaba per più minuti, su e giù attorno a una nota. Ne nacque il canto gregoriano, ascoltando il quale egli non aveva più il consueto mal di pancia, il quale però si trasferiva alla comunità dei fedeli.

Chi sia giunto all’ultimo terzo della propria vita, senza volere essere di malaugurio nei confronti di chicchessia diciamo chi sia oltre il sessanta, ricorderà forse qualche pellicola in technicolor in cui s’aveva a vedere una qualche scena di estasi religiosa tramite riti di generico primitivismo, ma un po’ sensuali, fanciulle e magari serpenti volteggianti, cosce che oggi parrebbero grassocce, luci di fiamma rosseggiante. In genere erano scene che s’aveva il sospetto fossero imposte dal produttore al regista per dar modo di volteggiare sinuosamente a improbabili regine del night.

Tra suggestioni spirituali e immagini carnali, bene o male che sia questa musica ci ricorda quei mondi. Innanzi tutto lo fa proprio richiamando alla memoria il mood che attribuiremmo al pianoforte di Eric Satie nel night parigino. Ma qui c’è un coro attonito che là sicuramente non c’era. D’altro canto in una scena del cinema in costume before Christ o del teatro d’intrattenimento nel club notturno la durata della cosa non può andare oltre qualche minuto. Sarebbe insopportabile. Trattandosi qui di musica che uno mette sul giradischi quando gli pare, che ascolta al volume che preferisce e finché ne ha voglia, che dunque può essere abbandonata molto facilmente, il gioco tra l’indice di gradimento e l’indice di ascolto dètta la sua legge proprio facilmente, in versione Ecm o in qualsiasi altra delle tante che agiscono nei programmi che si dedicano all’intrattenìmento.

La norma è nota: più ci si dedica al qualitativo, meno ascolto si ottiene e, naturalmente, viceversa. Ciò significa che un certo grado di banalità può mediare tra l’attenuarsi della tensione emotiva e una più diffusa comprensione e, dunque, partecipazione. I materiali di Hamasyan hanno evidenti origini nella musica rituale, parole che non comprendiamo sono attribuiti ad antichi poeti di cui è possibile si sia sentito il nome, ma non altro se non si è dei cultori di quel pezzetto di mondo dov’è l’Armenia. Nella nostra cultura non ci soccorre qui, però, tanto la musica di chiesa, quanto Satie, super-esota del night, e Richard Strauss (anch’egli un musicista dedito a volte, come in Salome, ai rituali), ma in definitiva Arvo Pärt (il meno tonico, comunque, non quello di Fratres o di Festina Lente).

Con questa musica però ci si trova in spazi esotici, senza dramma. L’impressione personale è in effetti che vivano di una ricerca di leggera alterazione estatica. Un po’ come nei film della trilogia teatrale di Glass, Akhanaten per esempio, il tempo e lo spazio sono nascosti. In questi l’azione aiuta a interpretare l’addensarsi ritmico, qui, non capendosi una parola non si sa perché l’espressione si tenda quando s’arriva al primo solco dopo il decimo. Tutto cresce di volume e d’intensità, per un breve momento, poi si torna al quel cantare guardandosi l’ombelico di cui questa musica è fatta. In questo passo indietro dominano fantasmi di diversa grandezza, ma diciamo di scuola ebrea o, forse meglio,di scuola del vicino oriente, lamentosi, ma che godono dei propri lamenti.

Il risultato sembra confermare, anche senza volerlo, l’assunto per cui è funesto a chi nasce il dì natale. Ma lo fa mentendo perché la musica non ha peso, ma cerca gli incantesimi, una musica da vero esota, forse magari anche religiosamente. Essa si fa meno sognata quando sparisce il coro, subentra l’orchestra e il pianoforte tace. Ma è solo una breve pausa cui segue un riecheggiare incantato, più che dal Doganiere o da Ravel malgascio, dall’yiddish del Cantante di jazz vecchissimo film, uno dei primi sonori che, anch’esso col jazz non aveva nulla a che fare.

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Pubblicato il 2015-11-09 Scritto da GiampieroCane

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