Al Lingotto di Torino un minuto di silenzio in apertura del concerto con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia per ricordare le vittime della strage in Tunisia
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
GRANDE EMOZIONE IN SALA, domenica 22 marzo 2015, a Torino per le parole di Francesca Camerana, direttore artistico di Lingotto Musica e di Sir Antonio Pappano che hanno inteso congiuntamente dedicare il concerto dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia alle vittime della strage terroristica in Tunisia. Un minuto di silenzio e poi via con la musica. Grande musica e soprattutto una grande, grandissima orchestra, tra le migliori al mondo, di certo nei primissimi posti.
Ancora più sorprendente la coerente e bellissima interpretazione della poco nota Seconda Sinfonia del finlandese Sibelius, scritta nella quiete solare di Rapallo a inizio Novecento
In apertura Rachmaninov e il poema sinfonico L’Isola dei morti, ovviamente ispirato alle varie versioni dell’omonima tela di Böcklin. E allora subito l’esordio cupo e brunito, come una lenta trenodia, con quel colore ‘luttuoso’ e il pulsare lugubre del timpano. Poi il calibratissimo gioco del crescendo e la messa a fuoco dei timbri orchestrali. A dir poco perfetto. Così pure la capacità di Pappano di porre in evidenza la materia per così dire viscosa, la densità delle armonie, ibridando il tutto di mille preziosi dettagli (le sortite dei legni, gli interventi in regione grave degli ottoni e per contro le estenuate rarefazioni degli archi), potendo contare su un’orchestra dalle prime parti di strepitosa bravura e dal suono complessivo di rara intensità e bellezza. Poi la pagina lievita in un gigantesco, immane crescendo. Senso delle proporzioni ed equilibrio indicibile è quanto il folto pubblico ha immediatamente percepito e apprezzato. Poi i clangori e le animate vivacità dell’ampia e un poco dispersiva sezione centrale: che pure Pappano ha dipanato con estrema cura attenuandone in massimo grado i lievi difetti. Infine l’emersione del Dies Irae metaforico segnacolo di morte: e il direttore è stato bravissimo ad evitare quel quid di enfatico e retorico che la pagina al suo interno obiettivamente contiene: basta nulla e l’equilibrio complessivo si potrebbe incrinare. E invece la tensione non è mai venuta meno.
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Ancora più sorprendente la coerente e bellissima interpretazione della poco nota Seconda Sinfonia del finlandese Sibelius, scritta nella quiete solare di Rapallo a inizio Novecento. Grande varietà di colori e fluenti fraseggi nell’Allegretto, per lo più radioso e giubilante: per dire, quel mirifico pizzicato degli archi, certe emersioni dei soli, sì da comporre magnificamente anche alcuni tratti lievemente disorganici entro questa stupenda Sinfonia che per molti è stata una vera sorpresa. Così dopo la policroma vivacità del primo tempo ecco la lugubre cupezza dell’Andante, vagamente fantasmatica e poi quelle veementi impennate, i temi come di corale: magnifico, per ricchezza di sfumature e precisione dei dettagli e notevole la capacità di mettere in luce gli echi russi di cui la partitura è costellata, come pure certe assonanze slave (Dvorák che occhieggia qua e là). Quindi il vivacissimo Scherzo dal quale emerge il sublime episodio lento, dai colori vagamente borodiniani. Ancora una rutilante ridda di timbri nello screziato Finale, ma anche delicatissime estenuazione degli archi (un pianissimo al limite dell’udibile che ha sortito enorme emozione), a fianco di uno sfolgorante scintillare di ottoni impreziositi di echi modali ed è proprio nel Finale che la Seconda di Sibelius raggiunte apici emotivi di trascinante pregnanza, giù giù sino alla luminosa coda di grande fascino timbrico con quell’insistito attestarsi sul re maggiore che richiama la Prima di Mahler (pur appartenendo a un altro universo espressivo). Applausi vivissimi, a fine serata, e niente bis (già previsto, si dice il verdiano Preludio da La forza del destino), con Pappano impaziente di incontrare i suoi fans (lungamente) nell’atrio per firme, autografi e strette di mano. Gran festa e tutti felici con strette di mano anche al neo sovrintendente di Santa Cecilia Michele Dall’Ongaro in partenza dall’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai.
A centro serata ancora Rachmaninov del quale si è ascoltato il giovanile Primo concerto in fa diesis minore op. 1; solista l’ucraino Alexander Romanovsky: classe 1984, solidi studi in patria e in Italia all’Accademia di Imola, poi il Busoni all’età di diciassette anni. Pianista solido dalla tecnica fin troppo agguerrita, ottave robuste, elasticità di tocco, passi volanti, ma anche asprezze ed aggressività fonica. Avremmo voluto più cantabile, più timbratura nei passi melodici (e non solo nell’Andante centrale), più charme e più magnetismo, non solo dimensione atletica ed il pur ammiratissimo funambolismo. Applausi peraltro convinti da parte di una sala gremita e come bis, di Chopin, il rarefatto, umbratile Notturno in do diesis minore opera postuma dagli incorporei trilli e dalla lunare linea melodica. Eseguito con una compostezza fin eccessiva, un po’ algido, laddove dovrebbe dare i brividi, con quei fantomatici passaggi memori delle Ballate e in chiusura le perlacee, incorporee scale che talora qualche emozione in più hanno regalato. Perfetta l’intesa con l’orchestra anche in questo caso parsa a livelli di bellezza sonora raramente raggiungibili. Sicché della serata conserveremo a lungo gradito ricordo.
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