Il pianista ha eseguito a Bari pagine di Beethoven, Liszt, Chopin. Virtuoso nel senso più ampio del termine, sorprende anche per il suo suono dalle antiche fascinazioni
di Luca Chierici
MOLTI SI RICORDERANNO quella vera e propria meteora pianistica che comparve nelle sale di Milano nel decennio 1994-2004 dispensando gli Studi di Chopin-Godowsky o altre pagine di proverbiale difficoltà con una facilità e un senso delle stile che lasciava allibiti. Francesco Libetta, questo il nome del corpo celeste, ha da allora percorso una carriera del tutto insolita, dedicandosi ai comparti più segreti della letteratura ma anche ai classici, senza seguire le direttrici usuali che portano alla frequentazione di concorsi e alla incisione di dischi dedicati a un repertorio scontato, preferendo la partecipazione a Festival di casa in terre lontane, il sodalizio con artisti come Battiato, l’insegnamento, la ricerca continua in campi che vanno anche al di là della musica per la tastiera.
I Valzer erano soprattutto eleganti, ritmati all’antica maniera, e l’impervia Sonata beethoveniana guardava più al fascino sonoro di un vecchio Kempff che alle vivisezioni analitiche proprie di scuole successive
Riascoltare Libetta dopo vent’anni per un aperitivo musicale al Petruzzelli di Bari è stata esperienza affascinante e in un certo senso commovente, tanti sono i ricordi di quelle prime stagioni milanesi e di quell’irrefrenabile entusiasmo che aveva contagiato amici ed estimatori, molti dei quali non sono più tra noi. Libetta sembra avere trovato una pace interiore nella ricerca e nell’ottenimento di un suono che ci ricorda da vicino quello di tanti pianisti del passato. Un suono filtrato da una sensibilità e da una saggezza che gli permettono di illuminare con la stessa luce soffusa pagine lontanissime tra loro, come quelle che hanno popolato l’insolito programma dell’altro giorno.
Dopo un dovuto omaggio al tarantino Paisiello, ricordato attraverso le semplici Variazioni del giovane Beethoven su un tema celeberrimo, Libetta ha alternato pagine decisamente virtuosistiche di Liszt ai tre Valzer op.34 di Chopin e alla Sonata op.109 di Beethoven. Come a ricordarci la sua natura di virtuoso, Libetta è passato indenne tra i flutti del primo Mephisto Walzer preoccupandosi soprattutto della qualità del suono (dando per scontato che ottave, glissandi, salti e quant’altro uscissero dalle sue mani con la consueta sicurezza) di una pagina che offre al pianista intelligente mille opportunità di scavo in tal senso. I Valzer erano soprattutto eleganti, ritmati all’antica maniera, e l’impervia Sonata beethoveniana guardava più al fascino sonoro di un vecchio Kempff che alle vivisezioni analitiche proprie di scuole successive. Nel primo bis, il Capriccio spagnolo di Moszkowski, si compiva la perfetta fusione tra il virtuosismo e l’attenzione a una qualità timbrica che sembrava uscita dai mitici rulli incisi da Josef Hofmann, a dimostrazione del fatto che quei documenti non costituiscono per nulla un esempio di tecnica e di suono riproducibile esclusivamente attraverso i freddi congegni di un Ampico o di uno Steinway Duo-Art. A Francesco D’Avalos attingeva invece un secondo fuori programma tutto condotto sul filo di melodie schumanniane e beethoveniane, di quelle che ogni ascoltatore attento conserva in qualche remoto angolo della propria memoria musicale.
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