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Diario londinese/3 • Con tre formazioni vocali riunite (Goldsmiths Choral Union, Highgate Choral Society e English Concert Chorus) l’oratorio di Händel è stato diretto da Brian Wright. Lettura non filogica in senso stretto, niente estenuazioni da barocchisti talebani
di Attilio Piovano
P er chiudere in bellezza la nostra fin troppo breve trasferta londinese e non farci mancare nulla, niente di meglio che il Messiah alla Royal Albert Hall, il tempio universale della classica, una tra le più ampie e capienti sale del mondo, con la sua capacità di ospitare oltre 5000 spettatori. Il clima è di festa, ma nel contempo nulla di ingessato, prezzi alla portata di tutti, ma proprio di tutti (concerto targato Raymond Gubbay’s), e un pubblico vasto ed eterogeneo che affolla quasi per intero la sala (e dire che si tratta di una replica). Il corretto e simpatico Brian Wright dirige la Royal Philharmonic Orchestra con gesto chiaro e preciso. Ma soprattutto il colpo d’occhio incredibile è sui tre cori convocati per l’occasione. E si tratta di Goldsmiths Choral Union, Highgate Choral Society e English Concert Chorus. Già solo scorrere lo sguardo sui circa 500 coristi è un piacere indicibile. E si intuisce facilmente quanto grande e capillare sia la familiarità del popolo britannico con l’universo corale. Una questione di cultura nel senso più ampio (e non elitario) del termine. E si intuisce ancora più facilmente quanto grande sia il loro amore per Händel, di fatto loro concittadino illustre (lo hanno sempre coccolato, considerandolo a buon diritto uno tra i ‘loro’ massimi compositori, sepolto in Westminster).
Esecuzione non filologica in senso stretto, niente estenuazioni da barocchisti talebani, al contrario corposità sonore, possenti nei passi corali. Subito la temperatura emotiva sale in And the Glory of the Lord. Per poi mantenersi alta in tutti gli ulteriori interventi corali (e si sa che sono molti, da Glory to God all’emblematico Hallelujah che chiude la seconda sezione del Messiah). Luci e colori in sala sono natalizi, gli addobbi tipicamente inglesi con due abeti punteggiati di luci ai lati del vasto organo a 4 manuali (costruito tra il 1924 e il 1933 tuttora uno dei più imponenti strumenti da sala del mondo, il più vasto nel Regno Unito). E proprio l’organo con le sue possenti sonorità (la basseria da 64 piedi) fa risuonare bassi di incredibile corposità a sostegno dei coristi (un plauso all’organista Stephen Disley e così pure a Claire Williams che al clavicembalo ha disimpegnato la parte del basso continuo. Ottime e coreografiche le due trombe disposte ai lati dei cori. Non meno determinante l’apporto delle voci soliste: Christine Rice, mezzo-soprano che da tempo ammiriamo per la scrupolosa professionalità e la bellezza del timbro, più ancora il soprano Lucy Crowe che è stata per chi scrive una scoperta graditissima, voce nitida e cristallina e molta intelligenza interpretativa. Meno coinvolgenti (e pur corrette) le voci sul versante maschile, il tenore Andrew Tortise ed il bass-baritone neozelandese Jonathan Lemalu dal timbro un poco aspro. Il clou dell’emozione, con un tocco di nazional-popolare se ci è concesso, per l’appunto nel citato Hallelujah. E si comprende quanto il Messiah in tempo natalizio per i londinesi sia un vero e proprio rito: col sorriso complice del direttore che voltandosi verso il pubblico esorta vigorosamente l’intera sala ad unirsi ai professionisti. Nelle nostre contrade ne verrebbe fuori una sorta di indegno karaoke: alla Royal Albert Hall invece l’emozione sale e ti conquista. E alla fine festa grande per tutti, con fiori financo ai solisti uomini, abbracci tra i coristi nei corridoi, festeggiamenti nei palchi, brindisi più o meno improvvisati e al direttore una nemmeno troppo simbolica bottiglia ‘magnum’ di champagne esibita simpaticamente come in segno di festa. E mentre l’intera compagine dei coristi esce ed il pubblico ordinatamente, ma con allegria lascia la sala, senza nemmeno dover superare formalità burocratiche ci riesce di raggiungere la consolle del grande organo Harrison & Harrison e per qualche istante scorrere lo sguardo sulla lunga teoria dei registri ai lati. Un conto è leggerne il prospetto fonico sub voce in Wikipedia e un conto è essere lì a sfiorarne di soppiatto i manuali…
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